Che fantastica storia è il tennis, proprio come la vita. Già, perchè ci sono giocatori in grado di impartire lezioni ad ogni partita, di intonare un inno al successo, alla tenacia, alla vita. Si può cadere, spesso sprofondare, si fatica, si soffre battendo i denti, si versano lacrime, ma poi si vede di nuovo il sole. Poesia, romanticismo, eleganza. Tra qualche giorno, precisamente il 3 Luglio, l’erba più prestigiosa del circuito sarà accarezzata per la 136° volta nella storia. Tornando indietro di ben 47 anni proprio sul giardino di Wimbledon si giocò una delle finali più celebri e romantiche della storia: Arthur Ashe contro Jimmy Connors. Da una parte l’intelligenza, la pacatezza, un violino lento, ma che si alza di ritmo da un momento all’altro, dall’altra una forza, una chitarra rock che bombarda di colpi. Il patriottismo contro il pragmatismo.
Correva l’anno 1975: un giovane Bill Gates fondava la Microsoft destinata a spalancare le porte dei computer nel mondo, nelle radio di tutto il pianeta risuonavano le energiche e immortali canzoni dei Queen, in Vietnam venivano riposte le armi, al cinema usciva il fantasioso e simpatico film “Amici Miei”, il poeta Pasolini ci lasciava, mentre per il mondo del tennis fu l’anno della famosa finale di Wimbledon vinta da Ashe.
L’afroamericano Arthur Ashe si presenta al prestigioso torneo di Wimbledon consapevole di affrontare numerose insidie per il sentiero verso la finale. Non è certo il favorito ed il pubblico pensa che verrà “umiliato”. Jimmy Connors, il giocatore più forte del mondo, vuole a tutti i costi una rivincita. Già, perché Ashe, da presidente dell’ATP, gli aveva impedito di iscriversi al Roland Garros nel ’74, ponendo fine al sogno Grande Slam. Nel torneo il percorso di Connors è stato indenne: tutte vittorie senza neanche perdere un set. Ashe, invece, ha dovuto scalare le montagne russe, battendo Bjorn Borg ai quarti e Tony Riche in semifinale.
Il giorno dell’attesissima finale è il 5 uglio. L’attesa per la partita, come per ogni finale, è interminabile; entrambi i giocatori decidono di trascorrere la sera prima in vari modi, cercando di rilassarsi e non pensando alla pressione del giorno seguente una volta accarezzata l’erba. Ashe sceglie di trascorrere la serata con Marty Riessen e Charlie Pasarell, giocatori anch’essi, i quali gli consigliano alcune strategie per la finale. E’ proprio al Westbury Hotel che Ashe vince la partita. Sviluppa il piano da attuare in campo il giorno dopo: servire esterno, giocare basso al centro, senza peso, senza ritmo. Il resto è poesia.
L’atmosfera è da brividi, con gli spettatori ancora inconsapevoli che stanno per vivere una delle finali più iconiche della storia. I primi due set sono a senso unico: 6-1, 6-1 Ashe. Il pubblico incredulo butta l’occhio sul Rolex: è trascorsa meno di tre quarti d’ora. Jimbo però non demorde e vince il terzo set 5-7, allungando la finale al quarto. E’ subito break e 3-0. Il quinto set sembra imminente, ma, ormai si è entrati in un film hollywoodiano; Arthur torna a servire al centro, recupera il break e firma una pagina di storia sportiva. E’ il primo americano della storia a vincere trionfare a Londra.
Quel giorno a Wimbledon, non ha solo trionfato un giocatore che ha disputato la “partita perfetta” tra tattica e strategia, bensì una nazione intera contro l’Apartheid. Sì, perché, nel frattempo, dall’altra parte del mondo, in un’angusta prigione del Sudafrica, un uomo gli faceva il tifo: Nelson Mandela. Ci ha creduto, ha sognato di vincere, nonostante i pronostici, un ambasciatore della vita che ha dimostrato che, in fondo, un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso.
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