124.051 abitanti. Nel cuore di una delle regioni più produttive del Vecchio Mondo e, di conseguenza, dell’intera Ecumene. Eppure, è a soli 19 minuti di automobile dalla più grande metropoli italiana, Milano. Una città viva, operosa. Con una storia tutta propria che, in un infinito gioco di corsi e ricorsi storici, vive all’ombra del capoluogo lombardo, pur rivendicando ragionevolmente un posto tutto per sé.
Impossibile, infatti, non dare il giusto tributo ad una città incastonata come una gemma preziosa nella Storia europea. Gli Asburgo la elessero nel corso della dominazione austriaca del XVIII secolo a sede per i soggiorni estivi della corte arciducale di Ferdinando d’Asburgo-Este, il figlio dell’imperatrice Maria Teresa. Una scelta motivata dalla salubrità dell’aria e dalla amenità del paese e che portò alla costruzione della celeberrima Villa Reale di Monza, inaugurata nel 1780 e vera e propria epitome del palazzo di gusto neoclassico. Monza, però, aveva già conosciuto nel corso dei secoli precedenti altre dominazioni straniere: su tutte quella degli eruli di Odoacre, colui il quale depose Romolo Augustolo nel 476 d.C., quella degli ostrogoti e, infine, dei longobardi della regina Teodolinda (VII secolo d.C.). La Brianza è anche terra dei sapori forti, con un menù a base di gnocchi al gorgonzola e ossobuco.
Per districarsi, dunque, in una Storia così corposa e densa fatta di sport, cultura e Storia occorre necessariamente un mito fondativo, una sorta di primo capitolo per stabilire da quale prospettiva impostare la nostra narrativa. Le strade percorribili qui sarebbero molte. Monza fu, è stata ed è un ganglio vitale di tutta la Lombardia, uno strategico snodo per i commerci, per gli avvicendamenti politici e, disgraziatamente, anche per le vicende belliche degli ultimi duemila anni. Se si parla di sport, che spesso trascina con sé anche Storia e cultura, un’ipotetico punto di partenza potrebbe essere il 3 settembre 1922, la data di inaugurazione dell’autodromo cittadino: il solo, insieme al tracciato a stelle e strisce di Indianapolis, a vedere le auto da corsa sfrecciare ancora sul proprio asfalto bollente. Sport, cultura e Storia, dunque, in un’unica affascinante commistione. La costruzione del tracciato avvenne sulle macerie di una guerra perniciosa per l’Italia, che uscì dal Primo conflitto mondiale con il proprio tessuto socioeconomico in ginocchio. Tuttavia, alcune delle nostre grandi eccellenze nazionali come le automobili della FIAT e i lussuosi modelli targati Isotta Fraschini e Alfa Romeo erano già entrati nel firmamento dei grandi marchi produttori delle quattro ruote. Inoltre, si affacciava sullo scenario filosofico il futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, che voleva lo Stivale investito da una costante tensione verso un domani dinamico, forte e caratterizzato dal culto della velocità e della prontezza. Fu così che, in meno di quattro mesi, l’Italia, dove allora si poteva trovare un’auto privata ogni mille abitanti, ebbe il proprio autodromo incastonato nel rigoglioso polmone verde della città. Il rapporto tra autodromo e guerra non si esaurì, però, lì. Dopo la Seconda guerra mondiale e fino alla primavera del 1948 divenne, infatti, una sorta di magazzino per residuati bellici dell’A.R.A.R.
Per capire Monza e il Monza si deve andare molto più indietro nel tempo, per la precisione fino al medioevo e ciò è possibile utilizzando uno dei manufatti in ferro più famosi della Storia.
Nel 1922, mentre gli operai ultimavano i lavori nel cantiere dell’Autodromo Nazionale, il Monza Calcio battagliava sui campi della Prima, della Seconda e della Terza Categoria cercando di emergere tra i colossi calcistici dell’epoca. La squadra aveva visto la luce dieci anni prima, nel 1912, dall’unione di alcune società cittadine già attive all’inizio del XX secolo. A Monza, dunque, il calcio è arrivato subito dopo essere stato inventato. Come prima sede, nel pieno spirito dell’epoca, venne scelta la storica Pasticceria Roma. Come teatro delle sfide casalinghe venne individuato un lembo di prato nel rione Triante che, curiosamente, pur essendo in città, veniva chiamato fuoriporta. Si trovava, infatti, appena fuori dalle mura e, quindi, dai confini dei dazi cittadini. Per la colorazione delle maglie si optò per il bianco e l’azzurro. Gli attuali colori sociali, vale a dire il bianco e il rosso, arriveranno solo nel 1933. A rendere il tutto molto romantico ci pensò lo stemma disegnato dai fondatori fin dalla sua primissima versione: al centro del gonfalone infatti, allora come oggi, campeggiava la rappresentazione della Corona ferrea, uno dei pezzi di archeologia più rinomati di tutto l’Occidente. Questo capolavoro di oreficeria nel corso dei secoli aveva cinto il capo di alcune delle personalità politiche più importanti dello scacchiere politico del Vecchio Continente. Da Carlo Magno, per sé stesso e per il figlio Pipino, fino a Napoleone, che il 26 maggio 1805 decise di incoronarsi re d’Italia e che quando se la calò in testa, rigorosamente da solo, affermò:
“Dio me l’ha data e guai a chi la tocca!”
La Corona ferrea adornò il capo anche di Federico I Hohenstaufen, alias Federico Barbarossa, nel 1155 e molto tempo dopo la testa di Ferdinando I d’Austria, successore del padre Francesco I d’Austria alla guida del regno Lombardo-Veneto, e che, una volta diventato imperatore, si fece incoronare imperatore a Milano scorato dal maresciallo Radetzky, l’uomo che vinse la guerra e perse la pace. Forse fu anche per questo che, dopo le Cinque giornate di Milano e dopo l’Unificazione d’Italia, il momento fu storico quando la Corona arrivò finalmente tra le mani di Vittorio Emanuele II, sovrano di un paese unito. Per il Monza calcio venne scelto, dunque, un simbolo antico, foriero di Storia e di potere, di fede e di appartenenza. Un simbolo che accompagnerà fedelmente la squadra in tutte le sue vicende sul rettangolo verde di gioco.
Una storia, ad essere onesti, piuttosto avara di soddisfazioni sportive, o almeno così era fino alla tanto agognata, quanto già indimenticabile, prima promozione in A del 29 maggio 2022. Un obiettivo che sembrava come stregato per i brianzoli, che possono vantare uno dei più alti numeri di partecipazioni alla cadetteria: ben 40 edizioni della serie B, con la penultima promozione dalla C ottenuta metà sul campo e metà d’ufficio. L’approdo in A è stato fino a qualche giorno fa un’ossessione talmente tanto radicata nella cultura popolare monzese, che persino il comico Renato Pozzetto nel film Agenzia Riccardo Finzi… praticamente detective (1979), in cui interpretava un investigatore da strapazzo, ripeteva sconsolato:
“Io sono del Monza… non arriveremo mai in serie A!”
Una serie A spesso sfumata a pochi metri dal traguardo. Fatto avvenuto nel corso della stagione 1969-70 sotto la rigida disciplina di Luigi Gigi Radice, il compianto Sergente di ferro di Cesano Maderno, verace espressione della provincia monzese. Tra le menti più innovative del calcio nostrano anni ’70, Radice proponeva, infatti, un allora inedito pressing a tutto campo ai limiti dell’asfissiante per gli avversari. Non fu certo un caso, dunque, se la difesa brianzola risultò la migliore di tutto il torneo insieme alla retroguardia del Catania. Il sogno della promozione nella massima serie, però, s’infranse alla penultima giornata di campionato, quando un derby lombardo con il Varese mise bruscamente fine ai sogni di gloria monzesi. Furono due grandissimi del calcio italiano allora in maglia varesina, Ariedo Braida e Roberto Bettega, a gettare nello sconforto più totale il popolo monzese assiepato sugli spalti. Il Monza dovette registrare un’altra cocente delusione nove anni più tardi ad opera del Pescara e più probabilmente a causa del cosiddetto braccino del tennista, la paura di vincere. Già negli anni precedenti, la squadra aveva molto ben figurato avvicinandosi non poco al colpo grosso, ma nella stagione 1978-79 tutto sembrava dirigersi verso un memorabile lieto fine. A due giornate dal termine a Monza arriva il Lecce, già matematicamente salvo. Ai biancorossi basterebbe un punticino per la promozione. Invece, ecco un imponderabile harakiri: espulsione di Giuseppe Corti, il centrocampista ruvido per antonomasia, e rete del salentino Loddi. 0-1. Sui piedi di Massimo Silva, attaccante proveniente dal Milan, la palla del possibile pareggio sotto forma di calcio di rigore. Parato. Niente da fare. Monza raggiunto in classifica dal Pescara e costretto allo spareggio proprio contro gli abruzzesi. Sul campo neutro del Dall’Ara di Bologna, i delfini, forti di oltre trentamila tifosi giunti nella città felsinea contro i soli tremila provenienti dalla Brianza, s’imposero per 2-0.
La Storia, si sa, è fatta di corsi e ricorsi. La grandezza, a volte, va inseguita a lungo prima di assaporarla. In fondo, anche Napoleone per cingere fieramente il proprio capo con la Corona ferrea decise di spostarla da Monza a Milano. Altrettanto fece la squadra l’anno dopo quando, complice anche l’esplosione di due precocissimi talenti come Daniele provvidenza Massaro e Paolo Monelli, il Monza decise di giocare una partita casalinga a San Siro. Era il 16 marzo 1980 e par vedere Monza-Bari si riunirono più ventimila spettatori sugli spalti del Meazza. Il Monza ci avrebbe riprovato ancora: nella seconda metà degli anni ’80, un’infornata di giovani e talentuose leve, che avrebbero poi scritto pagine bellissime del libro del calcio tricolore, sembravano aver riposizionato nuovamente i riflettori sulla squadra. Il Monza poteva infatti annoverare tra le proprie fila gente del calibro di Alessandro Costacurta, Pierluigi Casiraghi, Francesco Antonioli, Maurizio Ganz ed Evaristo Beccalossi. Tutti giovanissimi, talentuosi e accumunati dall’aver vestito, prima di Italia ’90, la maglia biancorossa, pur non riuscendo a regalarle la vetrina esclusiva della serie A.
La Storia è un essere vivente. Dopo anni di passaggi di consegne, di guerre, conquiste e lotte politiche, la Corona ferrea, questo antico simbolo di forza e regalità, ha trovato finalmente casa. Ovviamente nel centro pulsante della città che le sta più a cuore: l’operosa e antica Monza. La si può ammirare, forse stanca dei continui passaggi di capo in capo, protetta dalle mura del Duomo, una cattedrale imponente, elegante ma lineare, pratica e capiente. Un edifico sacro capace di rispecchiare perfettamente lo spirito dei monzesi e, più in generale, dei brianzoli. Un edificio figlio di tempi remoti: è sorto, infatti, per volere dell’amatissima regina Teodolinda (570-627) che, proveniente dalle terre della Baviera, restò rapita dalla bellezza del luogo, che volle solennemente omaggiare con la costruzione di una basilica dedicata a San Giovanni Battista. Una scelta non certo casuale: nelle Sacre Scritture fu proprio il Battista a battezzare il Cristo e Teodolinda, che, come tutti i longobardi, abbracciò la fede cristiana proprio qui, ne voleva celebrare l’operato. Dentro il Duomo, nella cappella a lei dedicata, riposa oggi la Corona. Oggetto prezioso, magico, simbolo di una storia fatta con la forza delle idee e segno distintivo di un’intera città, ora chiamato a mostrarsi per la prima volta in tutti gli stadi della massima serie e magari, in un futuro prossimo, anche in Europa!
Peccato che re Silvio non l’abbia vista proprio tutta tutta la partita…
Come sempre un interessantissimo mix di storia, cultura sacra e profana (calcistica), ben scritto e con un incedere che non annoia e invita, anzi, a procedere fino in fondo con la lettura.
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