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Romina, quando la boxe non basta – Con il regista Valerio Lo Muzio

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Durante una fredda serata di ottobre, in mezzo alle miriadi di faccende che attendevano solamente il mio operato, mi sono deciso a guardare uno degli ultimi film che mi mancavano per completare la visione in qualità di giurista del festival Mente Locale. Certo, leggendone il nome – Romina – non avrei mai pensato che mi sarei trovato di fronte ad un film sulla boxe che trattava di tematiche particolarmente delicate come il reinserimento in società delle persone che tenderei a chiamare, in maniera di certo minimizzante, più sfortunate. E invece, guarda un po’, è proprio quello che è accaduto. Il territorio lo riconoscevo: era Bologna, la città in cui vivo, e quella era la Bolognina Boxe.

Palestra popolare che accoglie e aiuta tutti coloro che vogliono approcciarsi alla boxe come sfogo ma anche come possibile futuro, la narrazione del film mi ha convinto a contattarne il collettivo, allo scopo di approfondire queste tematiche così delicate e, perché no, magari anche aiutarmi a chiarire le idee sul film stesso. Ho trovato un ambiente accogliente, che mi ha indicato il numero del capo ufficio stampa della palestra, nonché regista del film insieme a Michael Petrolini, Valerio Lo Muzio. Così ho preparato qualche domanda: ne è nata una conversazione piacevole, con un uomo particolarmente disponibile e ben disposto, a rispondere ma soprattutto ad aiutare.

Valerio, per prima cosa, come stai? So che sei spesso in viaggio per la sponsorizzazione di Romina, che in teoria non è il tuo primo film in assoluto.

Sto bene, grazie, però sì, devo dire che tutti questi viaggi sono stancanti. In ogni caso è corretto, il mio primo film è stato Il gioco di Silvia, che però, anche per scelta nostra, non ha girato moltissimo i festival. È stato un primo banco di prova per me, che nasco come giornalista: giravo con una telecamerina, non sapevo praticamente nulla di questo mondo! È per quest’ultimo film che abbiamo fatto un bel salto avanti.

Ho letto una tua frase particolarmente interessante, te la leggo: “Cresciamo con il mito che la realizzazione dei propri sogni sia alla portata di tutti: basta impegnarsi, sudare e lottare con tutte le nostre forze e prima o poi raggiungeremo il nostro obiettivo. Credo invece che la realtà sia molto più complessa. Esiste una generazione alla quale non è concesso sognare, la loro vita è fatta di precarietà, di lavoro sottopagato, di sfruttamento, di diritti calpestati e di affitti troppo cari, anche in quella che è stata definita ‘la città più progressista d’Italia’.”. Questo si lega molto bene anche all’ambito sportivo: secondo te la Bolognina Boxe, lo sport in generale, che compito può avere da questo punto di vista?

Quello che fa la Bolognina Boxe è questo, il suo compito non è plasmare campioni: i ragazzi sono formati e se loro ci mettono la giusta mentalità probabilmente i risultati, in uno sport come il pugilato, possono anche arrivare. La Bolognina Boxe vuole garantire la possibilità di fare boxe: in un contesto periferico come questo spesso le famiglie meno abbienti sono anche quelle che rinunciano più facilmente allo sport. È questo che la palestra vuole fare: aprire le porte a tutti. È una delle cose che più mi ha colpito della Bolognina, io sono fortunato, non sono ricco ma i miei genitori hanno sempre capito l’importanza dello sport e mi hanno sempre permesso di farlo. Volevo fare il giornalista: ci sono riuscito. Volevo fare il regista: ci sono riuscito. Questo per il semplice motivo che io provengo da una famiglia italiana e ho sempre avuto aiuti, possibilità, tralasciando quelli che sono stati anche i miei sforzi personali. I sogni di Romina erano due: diventare pugile e prendere la patente, sogni di una banalità che, per noi “privilegiati”, colpiscono molto.

Romina però nel film non sembra sognare così tanto di diventare pugile, è come se quel sogno venga scartato senza che lei ci provi in qualche modo.

Ma il discorso si riallaccia a quello che abbiamo appena detto. Romina si impegna, moltissimo, ma il fatto di rinunciare alla boxe è fisiologico nel momento in cui la madre finisce in carcere e lei deve badare al fratellino. Ha più lavori, peraltro precari, e le bollette da pagare. Ovviamente non viene mostrato tutto nel film. Non è poi così semplice quando nasci dalla parte sbagliata del marciapiede. La frase emerge dal mio contesto, in base a quello che ho vissuto: non ho mai pensato di essere stato un privilegiato nella vita, però vedendo la situazione che vivono questi ragazzi in periferia mi sono dovuto ricredere. Basta poco: 100 metri più in là e i sogni diventano più difficili da realizzare, le difficoltà si devono superare spesso da sole. C’è un razzismo latente, in un sistema che non consente a determinate persone di essere completamente inserite nel sistema. Lo sport è la cosa più sacrificabile: è quello che fa da sfondo alla vita di Romina, che però avrebbe voluto andare anche all’Università, ma ovviamente lei doveva andare avanti.

È giustissimo. Romina dice, all’interno del film, che la boxe le permette lo sfogo e che è anche questo che non le fa abbandonare tutto: sembra che in un contesto come questo la boxe in particolare sia uno sport che permetta di gettare fuori tutte le preoccupazioni, appunto di sfogarsi. Ha un ruolo privilegiato in questi contesti rispetto anche ad altri sport?

Lo sport è una parte fondamentale della formazione di un individuo nell’adolescenza, soprattutto per quanto riguarda quelli di squadra. La boxe, però, è uno sport individuale: sei tu e il saccone, in quel ring ci sali da solo. È quasi una metafora della vita: per quanto ci si possa circondare di persone, per citare De Andrè, quando si muore si muore soli. Era un po’ questo il motore di Romina.

Sono d’accordo, e la metafora è azzeccatissima. Vorrei concentrarmi un po’ di più sul film: nella parte in cui si racconta la chiusura della palestra per disturbo della quiete pubblica si percepisce la frustrazione. Da persona che l’ha vissuto, com’è stato? Quanto si è sentita la collaborazione tra gli iscritti, la coesione che emerge dal film?

Io ho vissuto la situazione in una duplice veste. Faccio un piccolo flashback: mi mandarono ad intervistare Pamela (Pamela Malvina Noutcho Sawa, destinata a diventare campionessa italiana ed europea dei pesi leggeri, ndr) durante il periodo Covid, in quanto era appena diventata campionessa italiana dilettanti. Io avevo praticata boxe in passato, dopo l’intervista è nata un’amicizia fortissima con lo staff della Bolognina Boxe, tanto che mi venne chiesto di entrare a far parte dell’ufficio stampa. Parallelamente stavo concludendo le riprese de Il gioco di Silvia, Alessandro (Alessandro Danè, tecnico e maestro Bolognina Boxe, ndr) perciò mi ha chiesto di fare un documentario sulla palestra: è a questo punto che ho conosciuto Romina. Io ero parte attiva di quella realtà nel momento in cui la palestra è stata chiusa; dall’altro lato dovevo mantenere un distacco in qualità di regista. Dovevo raccontare la verità nuda e cruda, ed è stato difficile. Quello che mi ha colpito è stata la solidarietà: è stato bello vedere in un momento di difficoltà crearsi un sistema di rete sociale, di aiuto dal basso. Soprattutto emerge la tematica della poca disponibilità di spazi sociali a Bologna, che vengono costantemente chiusi se non consentiti dal Comune: quella che è stata la capitale delle novità e dei movimenti è costretta a chiudere.

In effetti volevo chiederti: può esserci una sorta di visione negativa per questi contesti, è possibile che siano in un certo qual modo malvisti dalla popolazione perché popolati da “persone poco raccomandabili”?

Non ci vedo un disegno, bensì una fallacia del sistema italiano. Nel nostro caso è stato un inquilino specifico, soprastante la palestra, che si lamentava del rumore. Dovrebbe essere l’amministrazione comunale ad intervenire: la palestra offre in ogni caso un servizio alla comunità, alla società, un servizio di welfare dal basso, ci saremmo dovuti venire incontro per trovare una soluzione. Questo non si è verificato, e ci ha fatto male: non ce l’abbiamo mai avuta con l’inquilino al piano di sopra. Dopo, l’accordo l’abbiamo trovato, l’affitto del nuovo immobile è molto alto ma quantomeno il Comune ha fatto da garante raccomandandoci.

D’accordo. Direi che allora ti posso fare un’ultima domandina personale: quanto è stato difficile seguire Romina per quattro anni interi? Le riprese sul ring devono essere complesse.

Quattro anni sono tanti. È stato difficile per tanti motivi. Io e Michael abbiamo iniziato a girare senza accesso a nessun bando, senza sapere di avere la possibilità economica di realizzare il film, investendo totalmente soldi nostri. Poi abbiamo vinto i bandi, e abbiamo tirato un gran sospiro di sollievo, risolvendo una serie di problemi. Forse la difficoltà maggiore è stata quella del tempo: quando si fa un documentario sulla vita di una persona puoi sceneggiare quanto vuoi, ma la vita non è un film. Ci sono stati momenti in cui Romina è sparita per del tempo. In quattro anni abbiamo fatto altri lavori, non solo questo. Ti racconto quest’episodio: ci eravamo accordati con Romina per fare in modo che nel momento dell’arresto della madre ci avrebbe contattato, la cosa era nell’aria e così è stato. Solo che in quel momento mi trovavo a Modena: quando è arrivata la chiamata di Romina ero in autostrada, ho preso la prima uscita e sono sfrecciato a casa di lei giusto in tempo. Ho lasciato la macchina letteralmente in mezzo alla strada! Ma ti dico: i sacrifici non ci sono mai pesati, questo era il film che volevamo realizzare e vedere la gente al Biografilm riempire la sala non ha paragone, questa è la maggior gratificazione, tutti questi sacrifici sono serviti. E mi preme sottolineare anche il coraggio di Romina e della famiglia, che ci ha aperto le porte di casa: serve davvero tanto coraggio.

Non ne dubito. Vuoi dire qualcosa sul film? Come siete messi ora?

Abbiamo vinto tre premi al Biografilm, ieri abbiamo saputo che ne abbiamo vinti altri due al Documetaria, siamo in concorso a Mente Locale e abbiamo partecipato anche al festival di documentari di Mosca. Parteciperemo ad altri, ma contemporaneamente ci stiamo attrezzando per la distribuzione in sala. È difficile perché si tratta di un documentario, ma vorremmo portarlo nei luoghi più affini a noi per far davvero conoscere la situazione delle palestre popolari e dare una marcia in più a questo mondo complesso quanto affascinante.

Post Scriptum: sono anche un po’ emozionato nel comunicarlo, ma Romina vince il premio “Visione Globale” del festival Mente Locale. In sostanza, vince il miglior film. Valerio e Michael, godetevelo: ve lo siete meritato.

Festival Mente Locale: https://www.instagram.com/festivalmentelocale?utm_source=ig_web_button_share_sheet&igsh=ZDNlZDc0MzIxNw==
Luce Narrante Filmmaking: https://www.instagram.com/luce_narrante_filmmaking?utm_source=ig_web_button_share_sheet&igsh=ZDNlZDc0MzIxNw==

Mattia Piovesan

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