Uno dei riti del profondo sud che si perde nella notte dei tempi è quello del Capocanale. Una festa che aveva luogo alla chiusura di un lavoro che poteva essere la stagione dei lavori in campagna, la vendemmia, il taglio di un bosco, il completamento di un cantiere edilizio e vi partecipavano tutti quelli che, in un modo o nell’altro, avevano contribuito alla realizzazione.
La vita era molto dura e la socialità girava attorno a tutta questa serie di feste per rifocillare l’anima ed il corpo dopo le fatiche del duro lavoro fisico. Ancora oggi spesso capita che alla fine della realizzazione di una casa il proprietario dia una festa per festeggiare e ringraziare chiunque vi abbia contribuito.
Le ultime tappe dei grandi giri (Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta a España) hanno un po’ questo aspetto festoso. I corridori ridono, scherzano e brindano per festeggiare la conclusione di tre settimane durissime.
Quest’anno oltre la storica passarella parigina anche gli altri due grandi Giri hanno dedicato la tappa finale ad una festa collettiva del gruppo. Tutte nelle rispettive capitali, Roma e Madrid.
Ma partiamo dalla fine.
Madrid. 17 settembre.
Si sta concludendo la Vuelta a España in un circuito finale che si snoda nella capitale spagnola. Chiunque si aspettava una passerella finale condensata da una volata. Non è andata proprio così. Ai meno quaranta chilometri dall’arrivo ecco che parte una fuga contenente ben tredici vittorie di tappa nei grandi Giri di quest’anno.
Remco Evenepoel (Soudal Quick-Step), cinque vittorie (Fossacesia e Cesena al Giro d’Italia, Arsinal, Larra Belagua e La Cruz de Linares alla Vuelta a España).
Kaden Groves (Alpecin-Deceuninck) quattro vittorie (Salerno al Giro d’Italia, Tarragona, Burriana e Madrid alla Vuelta a España).
Nico Denz (Bora-Hansgrohe) due vittorie (Rivoli e Cassano Magnago al Giro d’Italia).
Filippo Ganna (Ineos Grenadiers) una vittoria (la cronometro di Valladolid alla Vuelta a España).
Rui Costa (Intermarché-Circus Wanty) una vittoria (Lekunberri alla Vuelta a España).
Lennard Kamna (Bora-hansgrohe) una vittoria (Collado de la curz alla Vuelta a España).
Racconti dalla stagione dei grandi Giri
A spuntarla è stato Kaden Groves ma questo insieme di corridori protagonisti per gran parte dell’anno dà lo spunto per un racconto di quella che è stata la stagione dei grandi Giri del 2023. Una stagione lunghissima con dentro storie di uomini e di luoghi complicati da riassumere in maniera lineare. Ci vuole del tempo per metabolizzare la fine di ogni grande Giro. Scoprire i retroscena, ascoltare le parole di chi in queste storie di pedali ci ha vissuto da vicino o ne è stato il protagonista.
La sensazione che lascia addosso la fine di ogni grande Giro è quella del risveglio dopo una grande sbornia. La fine di tre grandi feste lunghe tre settimane l’una. Un momento in cui per almeno per qualche ora al giorno puoi mettere tutti i pensieri da parte e goderti le gesta di gente più in forma di te.
Metti poi che è sempre lunedì il giorno dopo che finisce tutta questa magia e quindi ci si sente doppiamente persi. Quasi arriva un punto della mattina in cui ci si chiede: “Oggi chissà come finisce la tappa” ed invece mezzo secondo dopo ti ricordi che oggi la tappa non finisce perché è la stagione ad essere agli sgoccioli.
Di gare blasonate mancano ormai il Lombardia, la Parigi-Tours e l’europeo in corso. Poi ci si rivede in Australia a gennaio.
E così si riparte per l’ordinaria vita che ti può riservare un lunedì di metà settembre. Quando le giornate iniziano ad accorciarsi ma con questo riscaldamento globale sembra sempre luglio.
Dentro hai un Blue che ti accompagna. Quella sensazione che qualcosa di bello è finito, che dovrai farci l’abitudine, anche se non vuoi.
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Vuoi anche il mondiale agostino, ma quest’anno la sensazione che si percepisce è quella di una sorta di overdose di ciclismo e corse da vedere. Le cause possono essere molteplici: le nuove piattaforme permettono di vedere gare integrali da febbraio a novembre in ogni parte del mondo ad ogni ora del giorno.
C’è un secondo motivo che invece riguarda le corse in sé.
Ogni gara ha un coefficiente di spettacolarità crescente. Gli esperti lo chiamano “ciclismo moderno”, più semplicemente è il livello medio che si è alzato in maniera vertiginosa. Così anche nelle corse di medio livello i corridori discreti si rendono protagonisti di prestazioni eccellenti. Figuriamoci quando sono presenti i primi della classe cosa può succedere.
La stagione dei grandi Giri ha inizio a maggio con la corsa di casa nostra, il Giro d’Italia. Prosegue a luglio con il Tour de France, che è di sicuro la più blasonata tra le tre corse, e si conclude con la Vuelta a España tra agosto e settembre. Quest’ultima gara ogni anno che passa ha sempre più importanza e purtroppo questo dovrebbe far riflettere gli organizzatori della corsa nostrana.
Quest’anno la stagione dei tre grandi Giri è coincisa con il dominio di una sola squadra: la Jumbo-Visma. La squadra olandese è riuscita a vincere tutte e tre le corse con tre corridori diversi: il Giro d’Italia con Primoz Roglic, il Tour de France con Jonas Vingegaard e la Vuelta a España con Sepp Kuss.
Stesso team ma tutte le vittorie sono arrivate in maniera profondamente diversa tra di loro.
All In. Il Giro di Primoz Roglic
Nel poker la dicitura All-In sta a significare una mossa per cui il giocatore punta tutte le chips a disposizione. In un modo o in un altro il Giro d’Italia 2023 è stato spesso un azzardo. Nel documentario “Tour de France: Unchained” (qui ve ne proponiamo un commento), Jonathan Vaughters parla del ciclismo come una partita di scacchi mentre sei in bicicletta.
La corsa rosa è stata invece più una mano di poker. L’azzardo azzeccato di chi andava in fuga perché spesso è stata proprio la fuga a spuntarla sul gruppo. Ma soprattutto una scommessa fatta da Primoz Roglic.
Giocarsi tutto l’ultimo giorno. Come a volersi riprendere una rivincita contro quel destino che tre anni fa lo beffò al Tour e che stava per rifarlo di nuovo.
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Immaginate di dover scrivere un romanzo sul ciclismo. Il vostro protagonista è ad un passo dal vincere una corsa importantissima quando ha un salto di catena. Ecco che un vecchio amico compare a bordo strada per aiutarlo a ripartire, ed il protagonista può ripartire per la marcia che lo porterà al trionfo.
Ecco. Questo è quello che è successo a Primoz Roglic alla penultima tappa di questo Giro salendo verso il Monte Lussari. Salita tremenda che per lui si è rivelata dolcissima. Sia per gli accorgimenti tecnici (il monocorona si è rivelata la scelta più azzeccata), sia per l’aiuto di Mitja Meznar (compagno di squadra quando Roglic era saltatore con gli sci) ma soprattutto per merito suo.
Lo sloveno è riuscito a calibrare alla perfezione gli sforzi e la condizione per arrivare al momento migliore di condizione per ribaltare tutto sul Lussari, è andato all-in giocando tutte le sue fish nella cronoscalata che da Tarvisio porta al Monte Lussari, e gli è andata bene.
Una cronoscalata, come quella della Planche des Belles Filles che nel 2020 gli fece perdere il Tour de France.
Questo scommessa l’ha fatta con le sue gambe e contro Geraint Thomas (Ineos Grenadiers) l’ultimo giorno di un Giro d’Italia per molti tratti bloccato tatticamente.
Vuoi per l’abbandono prematuro di quella che era la mina impazzita del Giro, Remco Evenepoel. Vuoi per l’equivalersi delle forze in campo tra Roglic, Geraint Thomas ed un roboante Joao Almeida, un gradino più in basso ma comunque al suo primo podio in carriera in un GT.
Il merito di essere arrivato in questa condizione è anche in parte di Sepp Kuss. Nella giornata difficile del Monte Bondone, l’aquila di Durango ha salvato un Roglic apparso in evidente difficoltà da un tracollo, riuscendo a mantenere il divario con Almeida e Thomas entro i trenta secondi.
Due settimane e mezzo di maltempo che hanno pesato tanto sull’economia delle forze in campo e questo ha portato gli uomini di classifica spesso a centellinare le energie. Lasciando così spazio spesso agli uomini di fuga, liberi di contendersi le vittorie di tappa.
Quattro nomi su tutti si sono resi protagonisti: Nico Denz (Bora-hansgrohe) , Filippo Zana (Jayco-Alula), Derek Gee (Israel-Premier Tech) e Thibaut Pinot (Groupama-FDJ).
In tanti giorni in cui i big non se la sono sentita di darsi battaglia, loro erano sempre lì davanti.
Sempre all’attacco e mai in maniera banale, sempre in tappe complicate, in quelle tappe dove in fuga non ci vai per sbaglio.
Nico Denz è stato l’unico capace di vincere due tappe in questo Giro, Rivoli e Cassano Magnago. Sempre dalla fuga e sempre con nomi di spessore. Il tedesco nel prosieguo della stagione si è confermato anche nelle fughe della Vuelta, con meno fortuna purtroppo per lui.
Maglia azzurra e piazzamenti. Dopo aver annunciato il ritiro ad inizio stagione Thibaut Pinot quest’anno riesce a correre come se si fosse tolto un peso enorme dalla coscienza. Così al Giro è sempre in prima fila nei momenti che contano. Purtroppo la vittoria non è arrivata, ma Pinot ha sempre emozionato ogni volta che si è allacciato il casco.
Sia al Giro, sia al Tour ad esempio quando, in occasione dell’arrivo a Le Markestein, è passato davanti a tutti con i suoi ultras in delirio su Le Petit Ballon dove c’era una vera e propria virage Pinot.
Episodio che dovrebbe ripetersi in occasione del Lombardia, ultima corsa del francese, dove i tifosi si stanno gia organizzando per celebrare il loro idolo. Chissà se la sua ultima recita sarà all’altezza. I suoi due GT lo sono stati sicuramente.
Il Giro di Derek Gee invece, pistard canadese alle prime esperienze su strada, è stato un viaggio che lo ha portato in un’altra dimensione, quella della èlite mondiale. Questo e tanto altro non è arrivato per caso ma perché Derek Gee è un gran corridore di cui sentiremo parlare per tanto tempo.
Quattro secondi posti di tappa, secondo nella classifica dei Gran Premi della Montagna, secondo nella classifica a punti, premio di super combattivo, oltre che il cuore di tutti gli appassionati.
Il centoseiesimo, con il senno di poi, verrà anche ricordato come la prima grande recita di Filippo Zana. Corridore che in tre settimane ha dimostrato tutta la sua classe e la sua versatilità in tante situazioni, risultando uno dei più grandi mattatori. Tante fughe, tanti piazzamenti e come ciliegina sulla torta la vittoria a Val di Zoldo battendo nientepopodimeno che Thibaut Pinot. Un ottimo biglietto da visita per gli anni a venire.
Ah, il tutto con la maglia di campione nazionale più bella degli ultimi anni.
La forza della tranquillità. Il Tour di Jonas Vingegaard.
Le probabili canicole /
Le dune e le libellule /
[L’estate enigmistica-Baustelle]
Questo pezzo parla di ciclismo ed una frase dei Baustelle sembrerebbe messa lì a caso ma nella mia testa ha una spiegazione logica e lineare.
Qualche giorno prima dell’inizio del Tour de France non riuscivo più a guardare nessuna corsa di ciclismo. La morte di Gino Mader al Tour de Suisse ha riportato un po’ tutti sulla terra. Tutti inebriati da questo ciclismo cinque stelle che quasi ci stavamo dimenticando della pericolosità di questo sport.
Il destino lo ha voluto fare privandoci di una delle perle più rare del gruppo. Era impossibile vedere una gara senza pensare a lui, poi un pomeriggio nella riproduzione casuale di Spotify è partito questo brano.
Le probabili canicole
Questa frase mi ha aperto un mondo di ricordi legati al Tour de France, perchè il Tour de France fa rima con la canicola. Il caldo infernale di metà luglio. Quello che fa sciogliere l’asfalto sotto le ruote. Chiedere al povero Joseba Beloki che ha visto sfumare un Tour ed una carriera per una caduta dovuta all’asfalto che si sciolse sotto le sue ruote.
Ora hanno provato a risolvere passando davanti la corsa con le autobotti per raffreddare l’asfalto. Non succedono più eventi del genere ma il caldo francese di luglio continua a mietere vittime, sportive e non purtroppo.
Il mio mondo personale di ricordi degli ultimi quindici lugli della mia vita è legato con questa corsa. Alberto Contador che attaccava ed io che mi gasavo ed andavo ad emularlo sulla salita vicino casa di mia nonna.
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Contador è stato il re di quell’età di mezzo tra Lance Armstrong, l’Operation Puerto (con tutto quel mondo di cui ancora adesso il mondo del ciclismo fa fatica a rimuovere l’onta), e l’epoca del dominio del Team Sky, che dal 2012 al 2019 ha vinto tutti i Tour de France (quattro con Chris Froome, uno con Geraint Thomas ed uno con Egan Bernal) tranne quello vinto dal nostro Vincenzo Nibali nel 2014.
O ancora il suo eterno rivale, Andy Schleck, che tra sindrome di calimero ed infortuni ha abbandonato troppo presto la ribalta, senza aver vinto tutto quello che le gambe gli permettevano. Memorabile fu la sua cavalcata al Tour de France 2011, dove si involò a novanta km dalla fine per andare a trionfare in cima al Col du Galibier.
Una delle imprese più belle degli ultimi anni. Sicuramente la prima nella mia personalissima classifica.
Almeno fino allo scorso anno, quando Jonas Vingegaard riuscì a mettere fine al dominio di quello che sembrava fino a quel momento un corridore imbattibile, Tadej Pogacar (UAE Emirates), instaurando il suo di dominio.
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Un attacco logorante, orchestrato alla perfezione con tutta la sua squadra dai meno sessanta chilometri al traguardo fece sì che sull’ultima salita il danese potesse rifilare tre minuti allo sloveno, ma soprattutto a renderlo umano.
Perché l’epicità della vittoria del danese in cima al Col du Granon non sta tanto nella vittoria in sé, anch’essa meravigliosa, intendiamoci, ma sta nell’aver riportato Tadej Pogacar nell’olimpo degli umani.
Cosa che da quando era piombato sulla scena nel 2019 in pochi erano mai riusciti a fare. Nessuno tra il 2020 ed il 2021, biennio in cui ha vinto tutto quello in cui ha partecipato.
Poi si è scoperto che non è stato Vingegaard a far tornare Pogacar umano, ma lo stesso danese ad essere un alieno.
Prima di diventare professionista la mattina lavorava la mercato ittico ed il pomeriggio andava in bici, fu poi notato dalla Jumbo-Visma che lo prese sotto la propria ala. Il danese, che ora si toglie il lusso di schiantare tutti in salita, in un tempo non molto lontano, nel 2019, era riconosciuto come il ragazzo più pericoloso del gruppo.
Sempre nervoso, inquieto, insomma una copia sfocata del killer sportivo che si vede in azione ora in TV.
Poi qualcosa è andato pian piano migliorando. Prima un giovane gregario in rampa di lancio e poi la consacrazione al Tour 2021 chiuso in seconda posizione dopo aver passato metà corsa ad accudire Primoz Roglic, che era come un leone ferito.
Gli ultimi due Tour de France lo hanno visto trionfatore. Nel 2022 la vittoria è stata condensata da una dose di epicità enorme. Due vittorie di tappa che per come sono arrivate, e per come lui ed i suoi compagni di squadra hanno messo in trappola Pogacar, sono destinate a rimanere nella storia recente di questo sport.
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La vittoria di quest’anno invece è frutto della tranquillità. Dell’aspettare il momento per infierire il colpo decisivo con la consapevolezza di aver fatto tutto per il verso giusto, per arrivare fino a giocarsi il Tour de France.
Per due settimane è stata una battaglia meravigliosa con il fuoriclasse sloveno. In alcuni giorni era Vingegaard a lasciare qualche metro, altri giorni il contrario. Poi in tre giorni Jonas ha ribaltato definitivamente l’inerzia dando vita a due prestazioni di clamorosa superiorità. Prima quasi due minuti a cronometro, poi il tonfo di Tadej Pogacar sul Col de Loze e l’affondo di Danish Dynamite gli hanno permesso di arrivare a Parigi con sette minuti e mezzo di vantaggio.
Ora Jonas Vingegaard è tranquillo, lo si vede nei gesti, nelle sue mosse in gara, sa quello che fa. Alla fine del suo primo Tour de France vinto nel 2022, però, il danese per un momento si è sentito perso. Dicono non abbia toccato la bici per un mese. Non sapeva che farsene di quella gioia.
Durante quelle tre settimane avrà forse letto qualche libro di Schopenauer, e sui piaceri effimeri, di troppo e forse in quel momento anche vincere la corsa più dura del mondo gli sarà sembrato poco di fronte alla sofferenza umana. Ma poca roba non è.
Quando dopo tanti tribolamenti hai attimi di tranquillità a volte capita di non sapersene che fare. Non lo sapeva uno dei corridori più forti al mondo quindi possiamo permettercelo tutti quanti noi qualche attimo di smarrimento.
Umano, troppo umano. Di Sepp Kuss e di tutti gli umani del gruppo
Durante una delle interviste di rito a fine gara è stato chiesto a Sepp Kuss come mai fosse così ben voluto da tutti. Lui candidamente ha risposto: “forse perché sono umano”. L’americano ha ragione. L’appassionato di ciclismo segue le vicende dei primi della classe. Patteggia per alcuni di loro, di altri ne riconosce l’oggettiva forza, ma principalmente tifa per gli umani. Per quelle storie che potrebbero succedere ad ognuno di essi.
Così tutto il mondo dalla bicicletta, dall’ottava tappa in poi di questa Vuelta a España, si è trovato a tifare un ragazzo americano laureato in comunicazione che si è trovato in maglia rossa quasi per caso. Grazie ad una fuga.
Due giorni prima Sepp Kuss trionfa a Javalambre e non sembra interessarsi della maglia rossa. Passa l’ultimo chilometro a dare il cinque ai tifosi. Probabilmente nella sua testa avrà pensato godersi la gloria di una vittoria di tappa prima di sgobbare per i suoi due capitani.
E che capitani: Jonas Vingegaard e Primoz Roglic.
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Fortunatamente le cose per lui sono andate meglio di ogni rosea immaginazione. Ogni giorno sia lui che la sua squadra hanno iniziato a credere poco di più nella possibilità di portarsi a casa la maglia rossa.
Per alcuni momenti, anche molto prolungati, è sembrato che gli unici che non volessero questa vittoria fossero proprio i due capitani. Vuoi anche per la assoluta superiorità della squadra e dei singoli, gran parte degli attacchi provenivano sempre dalla stessa Jumbo. Si è conclusa con una apoteosi della squadra olandese nelle restanti tappe di montagna.
Cinque vittorie di tappa (una per Kuss, due per Vingegaard e due per Roglic).
Mai un colpo a vuoto, solo Kuss per alcuni tratti non è riuscito a tenere il ritmo dei due compagni, che forse avranno affondato anche il colpo. Nessuno può sapere cosa è passato per la loro testa.
Può essere semplicemente che inseguivano la gloria personale (Roglic quella del record di vittorie alla Vuelta a España, sarebbe stata la quarta, e Vingegaard per la doppietta Tour-Vuelta) e si saranno un secondo dimenticati di chi c’era sempre per loro.
Davanti ai microfoni i due hanno sempre mostrato lealtà al capitano, forse in cuor loro sperando in un crollo, che invece non è mai arrivato. Ed è stato meglio così. I due intanto lo hanno accompagnato sul podio completando una tripletta storica.
Perché è bello quando a vincere sono gli umani come Sepp Kuss. Uno che ha fatto della fatica per gli altri una ragione di vita e per una volta sono gli altri a faticare per lui. È bello quando si conoscono i propri limiti, ed allora per combattere gli alieni ci provi con armi diverse.
Come ha fatto Jai Hindley (Bora-hansgrohe), in fuga alla prima tappa di vera montagna del Tour de France a Lauruns. Tappa e maglia gialla con un attacco da lontanissimo. Forse troppo visto che poi ne ha pagato le conseguenze già il giorno dopo, e non è stato più capace di incidere come ad inizio Tour. Ma doveva provarci.
Per sua stessa ammissione l’australiano ha vissuto come un monaco per quattro mesi per preparare al meglio la Grande Boucle.
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Come ogni ciclista del gruppo, a certi livelli non ci arrivi per caso. Ci vogliono costanza, dedizione e resilienza.
Può capitare anche che i risultati non arrivino e questo possa diventare frustrante, ti inizi a fare tante domande che quasi ti senti in colpa di essere lì.
E di vincere, come è successo a Matej Mohoric, che dopo aver vinto la diciannovesima tappa del Tour ha rilasciato un’intervista che ha del commovente e che fa trasparire l’umanità che c’è dietro questo sport, che noi riteniamo degli alieni.
Come c’è tanto di umano in Wout van Aert, il più alieno di tutti, che decide di lasciare il Tour e correre dalla moglie e stare vicino a lei in occasione della nascita del secondo figlio.
O in Remco Evenepoel che prende venticinque minuti sul Tourmalet. Passa la notte a piangere, ed il giorno dopo attacca in maniera furiosa per ricordarsi chi era dopo una notte fatta di domande allo specchio.
Questo e tanto altro è successo in questi tre grandi giri, ognuno dei tre verrà ricordato per molto tempo, ed ognuno per qualcosa di diverso. Per le storie umane che ci sono dietro questi trionfi che di umano a prima impressione sembrano aver poco.
Immagine in evidenza: Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2023
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