Non è facile parlare di quello che Kevin Garnett è stato per il basket NBA, e per i Boston Celtics in particolare. Nonostante abbia giocato in biancoverde solo per 6 anni, la sua numero 5 è stata ritirata dai Celtics ed innalzata sul soffitto del TD Garden il 13 marzo del 2022.
La squadra che lo ha scelto alla numero 5, invece, non l’ha ancora ritirata, e probabilmente non lo farà nel breve periodo. Eppure Kevin Garnett ha avuto un impatto enorme anche sulla giovane franchigia del Minnesota, che prima del suo arrivo non aveva mai partecipato ai Playoffs.
La Carriera
Nel 1995 fu selezionato al Draft senza passare per il college, una cosa che non succedeva da vent’anni. Qualcuno disse che la sua decisione a dichiararsi eligible sia maturata anche a causa delle sue difficoltà a passare i SAT, i test necessari per iscriversi al college. Tuttavia in realtà, se Garnett non fosse stato pronto a fare il grande salto, non avrebbe avuto la carriera che ha avuto. Bastò una sessione intensiva di allenamento con Kevin McHale e la dirigenza Timberwolves a scommettere su di lui.
A Minnesota conquistò il posto in quintetto già dal primo anno. Dal secondo anno in poi, divenne una presenza inamovibile all’All Star Game. Nei primi dodici anni di carriera NBA collezionò premi individuali e portò i Timberwolves alla prima Finale di Conference, senza però avvicinarsi mai al bersaglio grosso. Era inevitabile che dopo più di un decennio, Garnett volesse tentare l’assalto al Larry O’Brien Trophy. Purtroppo per i Timberwolves, non era possibile farlo in quella Minnesota.
L’approdo a Boston
L’occasione che lo portò a vincere l’anello si presentò nella stagione 2007/2008, anche se inizialmente la sua storia d’amore con la Beantown sembrava destinata a non iniziare. A raccontarla, sembra una delle tipiche sliding doors che si vedono solo nei film.
Appena prima dell’estate 2007, in mezzo ad ipotesi che lo volevano ceduto a fine anno, Garnett non era sembrato entusiasta all’idea di andare a Boston. Anzi, sembrava che la sua destinazione preferita fosse proprio quella Los Angeles degli arci-rivali. Ma non riuscì mai a mettersi in contatto con Bryant per sondare l’ambiente, e nel frattempo qualcuno si mise in mezzo: Danny Ray Ainge.
L’allora GM dei Celtics sapeva bene che l’estate del 2007 sarebbe stata l’ultima chiamata per costruire qualcosa intorno a Paul Pierce. Anche Pierce, come Garnett, era stufo di essere la stella in un contesto perdente. Voleva l’anello e, come KG, era disposto ad abbandonare una piazza che lo amava pur di vincere. Ainge questo lo sapeva bene, e infatti imbastì in breve tempo una trade insuperabile per convincere Minnesota. Nel frattempo, riuscì a convincere Garnett della validità del progetto che aveva in mente.
“Hai mai parlato con qualcuno che mentre ti parlava riusciva a fare in modo che tu vedessi quello che lui stava vedendo, tanto che non stavi più guardando il tuo interlocutore ma la cosa di cui ti stava parlando?
“Hai mai parlato con qualcuno che mentre ti parlava riusciva a fare in modo che tu vedessi quello che lui stava vedendo, tanto che non stavi più guardando il tuo interlocutore ma la cosa di cui ti stava parlando? […] Non ero neanche cosciente di come mi stesse lavorando ai fianchi”, dirà Garnett qualche anno dopo. La visione di Ainge colpì Garnett così in positivo che accettò di buon grado la trade. Addirittura consigliò di non includere Rajon Rondo tra i giocatori che Boston diede a Minnesota in cambio di Garnett.
Alla fine, la ricetta per entrare nei cuori dei tifosi bostoniani è facile a dirsi. Fin dalle prime partite con i Celtics, Garnett portò tutto il suo talento sotto canestro e lontano dal pitturato. Ma soprattutto portò quella mentalità che mancava dagli Anni ’80. Quella che porta a lottare su ogni pallone con la bava alla bocca per 48 minuti, ma al tempo stesso a sacrificare una parte dell’ego del campione per fare posto alla mentalità di squadra, all’ubuntu. Garnett in campo non era concentrato, era spiritato. Costantemente sopra le righe, soprattutto con quel trash talking che spesso sfociava in provocazioni eccessive.
Il rapporto con Boston
La numero 5 biancoverde è stata una seconda pelle per Garnett, tanto che prese come un tradimento personale la decisione di Ray Allen di andarsene da Boston per approdare alla corte dei rivali di allora. Per anni i due non si sono parlati, e Allen non ha mai partecipato alle rimpatriate di quei Celtics.
Garnett, invece, è rimasto fino alla fine, e anche dopo essersene andato ha continuato a dimostrare affetto per la piazza che lo ha portato in trionfo. Cosa che agli occhi dei tifosi lo ha fatto avvicinare ancora di più a quelle leggende in verde il cui numero è appeso sul soffitto del TD Garden.
L’Epilogo
Come in ogni storia da film che si rispetti, quelle storie che tanto piacciono al pubblico americano, non poteva mancare un epilogo degno di tale nome, quello che fa scoppiare in lacrime appena prima di alzarsi dalla poltroncina: l’abbraccio sul parquet tra Garnett, Pierce e Ray Allen nella veste del figliol prodigo.
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