Calcio

Quanto pesa il contesto per il singolo?

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Siamo nell’epoca in cui ci si mette 30 secondi a bollare un giocatore, sia in positivo che in negativo, con paragoni e considerazioni che spesso lasciano il tempo che trovano e quantomeno riduttive nelle argomentazioni, come << E’ forte/scarso >>, << Giocano bene/male>> e via dicendo. E siamo anche nell’epoca in cui si fa fatica a trovare dei limiti alle proprie aspettative, spingendo sempre un po’ più in alto l’asticella e restando delusi quando questa non viene scavalcata, come se fosse una cosa che ci è dovuta, come se un giocatore o una squadra, con quella che ai nostri occhi è una cattiva prestazione, ci stia mancando in qualche modo di rispetto a livello personale. Un po’ perché lo sport nazionale dell’appassionato italico standard è il giudizio affrettato e motivato “per sentito dire”, con scarsa propensione per l’approfondimento, e un po’ perchè comunque nel classico contesto da bar, ovvero birra media + amico + quotidiano sportivo per Fantacalcio, tutto ciò è ampiamente comprensibile. Appunto, il contesto. Ma esattamente, quanto cambia il contesto per il singolo giocatore e quanto viceversa?

Anzitutto, va fatta una doverosa premessa: cosa si intende per giocare bene e giocare male?

Penso che possa essere definita una squadra che gioca bene quella squadra che in campo segue una precisa organizzazione coerente, che sia essa fondata su dei principi o movimenti mandati a memoria poco cambia, e che lascia poco al caso nella suddivisione dei compiti tra giocatori. Una definizione che riassume al meglio questo concetto potrebbe essere che una squadra che gioca bene è quella che cerca di azzerare o avvicinare il più possibile allo zero l’incidenza della componente casuale e della fortuna all’interno di ogni partita. Fermo restando che nel calcio una componente dettata dall’imponderabile ci sarà sempre, e per fortuna è così, una squadra che gioca bene in questo senso, sul lungo periodo ha nettamente più chance di arrivare al proprio obiettivo di una che invece non lo fa.

Per giocare male invece si può definire una squadra che presenta un contesto tattico e tecnico non coerente (es. ricerca costante del fuorigioco con una difesa allineata male, movimenti poco coordinati tra i giocatori, oppure semplicemente ricerca di un identità di gioco che non può essere esaudita dai giocatori a disposizione per pochezza tecnica e tattica o scarsa predisposizione) e che quindi espone i propri giocatori ad adempiere a situazioni di gioco che singolarmente non posso o fanno molta fatica a risolvere e collettivamente non sono collegate tra di loro a un fine logico e che possa aiutare a costruire dei risultati. Una squadra che gioca bene costruisce dei risultati, una squadra che gioca male li trova, e qui sta tutta la differenza del mondo, ma nel calcio di oggi del nostro Paese giocare bene viene visto come un rischio, come un aumento delle possibilità di un brutto risultato, e spesso giocare male e vincere viene considerato addirittura un pregio, a partire dai settori giovanili; in questo controsenso assurdo si trovano tante risposte ai problemi calcistici odierni, fatti di mancanza di visione di insieme e assoluta sudditanza al risultato, altare su cui sacrificare tutto ciò che non risponde al dictat vincere subito.

Alla luce di ciò, quanto conta veramente per il singolo giocatore il contesto in cui si trova?

Tanto, molto di più di quel che si pensa. Il contesto è quello che può farti sentire a tuo agio in ogni cosa che fai o un pesce fuor d’acqua. Quello che a volte dimentichiamo è che il calciatore rimane in primis un essere umano, con i suoi alti e bassi e con i propri difetti e pregi. Non sono sicuramente uno stipendio elevato o un ruolo di prestigio che ti rendono un robot, nel calcio come in ogni altro ambito lavorativo.

Tutti noi conosciamo le doti tecniche e caratteriali di Diego Godin: difensore muscolare nel corpo a corpo, coraggioso e dotato di grande leadership, che si esalta nelle lunghe fasi di difesa posizionale e statica a cui lo sottopongono Atletico Madrid e Uruguay. Possiamo quindi affermare che i contesti tecnico tattici in cui si trova condizionano positivamente l’idea che abbiamo di lui? Certamente si.

Ma se Godin invece avesse giocato la carriera in contesti differenti con richieste differenti, come per esempio difendere una linea alta a 50 metri dalla propria porta, con tanto campo da coprire alle proprie spalle, un gioco maggiormente improntato sulla lettura delle situazioni che sulla marcatura e con compiti di prima costruzione in un gioco posizionale, che idea avremmo di lui? L’immagine che avremmo sarebbe la stessa? In assenza di controprova non ci è dato saperlo con certezza, ma almeno una riflessione è doverosa. E come Godin ci sono mille altri esempi: Messi e Cristiano Ronaldo, De Bruyne e Lukaku, Verratti e Immobile, Pogba, Insigne e aggiungete voi quelli che vi vengono in mente.

Il contesto probabilmente non fa il giocatore, ma lo aiuta in maniera determinante a essere quello che è; allo stesso modo, tanti giocatori che si esprimono per quelle che sono le proprie qualità non fanno un contesto vincente, ma intanto ne gettano le indispensabili fondamenta.

Quello che è indubbiamente vero è che il calcio non è semplice, almeno per chi sa vedere oltre, e bisogna diffidare dai facili giudizi assolutistici e cercare sempre una comprensione più ampia del gioco.

Siamo anche nell’epoca in cui si ricerca costantemente l’esaltazione o il crollo, il singolo che si erge a divinità calcistica o il bust, per poi trarre giovamento dalla vittoria o, peggio ancora, dalle sconfitte e dagli errori altrui, quasi come a volere farle proprie per compensare qualche deficit su questo aspetto. Per progredire, nel calcio come in tutte le cose, si deve uscire da questa chiusura mentale e aprirsi al miglioramento individuale, senza accontentarsi delle frivolezze e di giudizi immediati e fin troppo facili: il calcio è troppo bello e difficile per fermarsi a questo.

La Redazione
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