“La storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione, la storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere”. Così cantava Francesco De Gregori nel 1985. Spesso ci sediamo, sfogliamo un polverulento libro di storia e apriamo i cassetti dell’anima. In milioni di anni, sono racchiusi il pensiero, la forza e il coraggio dell’uomo. Il coraggio di cambiare, il coraggio di lottare o il coraggio di compiere un gesto eterno, immortale. Se spostassimo le lancette della memoria indietro di 53 anni, ci troveremmo catapultati in Sudamerica, destinazione Città del Messico.
E’ il 1968, l’Italia è al centro di tumultuose rivolte studentesche e operaie che sognano la rivoluzione, nelle strade americane riecheggia “My Way” di Frank Sinatra, a Memphis una pallottola misteriosa mette fine alla voce americana contro la segregazione razziale: Martin Luther King. Si arriva ad Ottobre, mese in cui sono in programma i XIX Giochi Olimpici della storia. Pochi giorni prima di riunirsi tutti insieme nella fede sportiva, l’esercito messicano aveva represso una pericolosa e sanguinosa protesta ordita da giovani studenti, provocando 40 morti. Il mondo è in preda ad un terrore ed una paura senza precedenti e lo sport, come sempre, è la miglior cura.
Il 16 Ottobre il calendario dice finale dei 200 metri piani. Tra i nomi presenti ne spiccano in particolare due: Tommie Smith e John Carlos. Afroamericani fino al midollo, sempre insieme, in ogni avventura, in ogni battaglia, nella vita. Il primo è di umili origini, cresciuto con il padre nei campi di cotone della California, mentre il secondo ha vinto una borsa in Texas State e poi è volato a San José State.
Non solo la velocità ed un’amicizia profonda li accomuna, bensì anche le lezioni avvincenti di “Racial Minority” tenute dal professore Edwards, uomo saggio, eloquente e schietto al tempo stesso. Bisogna rivendicare i propri diritti, quelli di un popolo messo da parte, denigrato, considerato “inferiore” da sempre. Per farlo, però, serve un gesto immortale. Serve consegnarsi alla storia. Sulla griglia di partenza gli otto finalisti sono: i due afroamericani, Peter Norman, Edwin Roberts, Roger Bambuck, Larry Questad, Mike Fray e Jochen Eighenerr. Si corre a ritmi incalzanti e folli, dopo 80 metri Carlos è in testa, ma all’imbocco della curva gli equilibri cambiano e Smith imbocca il rettilineo finale a grandissima velocità.
A pochi metri dal traguardo, si volta sorridendo, cercando l’amico Carlos. 19’83”, record del mondo e medaglia d’oro. John, nel frattempo, aveva rallentato chiudendo al terzo posto. E al secondo posto? Peter Norman, un piccolo australiano figlio di una famiglia operaia di Melbourne, uscito dai blocchi iniziali con una marcia irrefrenabile. Arriva il momento della premiazione. Ed è qui che lo sport lascia spazio alla meravigliosa sceneggiatura della vita. Smith e Carlos sanno che è arrivato il momento. Il momento di incidere i propri nomi sui libri di storia, il momento di avere il coraggio di dominare la paura.
Salgono sul podio, ma non si ammantano della bandiera americana, decidono di presentarsi per come sono, per com’è la loro gente: scalzi, per simboleggiare la povertà, la barba di qualche giorno per rievocare il professor Edwards, una tuta sbottonata e una collana di perle, per simboleggiare le pietre utilizzate nei linciaggi degli afroamericani. Norman è immobile, impietrito, si appunta sul petto la coccarda dell’Olympic Project For Human Rights, perché non può astenersi da una foto, da un’immagine destinata alla copertina della letteratura sportiva. Quando cala il silenzio a Città del Messico, sulle note di The Star-Spangled Banner Smith e Carlos chinano il capo e alzano il pugno chiuso, indossando i guanti neri. John Dominis, a pochi metri di distanza, scatta un reperto umanitario e storico tra i più celebri del Novecento. E’ un pugno alla storia, ai diritti, al potere dei bianchi. E’ il pugno nel silenzio messicano. Perché quel giorno un popolo intero tagliò il traguardo della vittoria.
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