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Oscar Tabarez e l’Uruguay: quando l’amore ti porta a dimenticare i contorni

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Con la sconfitta per 2 a 0 patita contro la Francia ai quarti di finale, si chiude ufficialmente l’avventura mondiale dell’Uruguay, che si trova ora costretta a richiudere ancora una volta i sogni di gloria nel cassetto e a voltare pagina; il ct Tabarez aveva detto <il cammino è il premio>, ma stavolta la volontà era quella di arrivare fino in fondo, usare le difficoltà (innumerevoli) come carburante e buttare il cuore oltre l’ostacolo. Perchè l’Uruguay è diversa, è una selezione, anzi una squadra ‘formato famiglia’, che va vissuta al massimo e non si limita alle tattiche e agli schemi, è di più. E questo lo sa bene chi la conosce più di tutti, chi l’ha cresciuta e sostenuta questa nazionale, chi l’ha amata: proprio l’uruguagio Oscar Tabarez, un uomo che oltre ad essere allenatore è anche uno psicologo, un confidente, un padre per i suoi calciatori: colui che ha rappresentato e incarnato per anni l’anima e la passione del popolo uruguaiano e sudamericano tutto, con la sua trasparenza e genuinità che l’hanno fatto diventare un’icona della nazionale nonché spot per l’intero mondo del calcio.

Una splendida storia d’amore (la sua) nata nel 1988, quando gli fu affidata per la prima volta, praticamente agli inizi della sua nuova carriera da allenatore, la panchina della ‘Seleccion de futbol de Uruguay’,che avrebbe portato fino agli ottavi di finale del mondiale di Italia ’90. Da lì, una serie di esperienze in Sudamerica (con Boca, Penarol, Velez e ancora Boca) e in Europa (con Cagliari, Milan, Oviedo e di nuovo Cagliari). Ma si sa che, citando Venditti, certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano: e fu così che nel 2006 (dopo ben sedici anni) El Maestro e l’Uruguay rincrociarono i propri cammini, ottenendo anche risultati importanti come il quarto posto al mondiale del 2010, dopo aver vinto ai rigori contro il Ghana ai quarti (in una partita indimenticabile) e sfiorato l’impresa in semifinale contro l’Olanda, e soprattutto la vittoria della Copa America 2011.

Nel 2016 però l’incantesimo sembra spezzarsi, con l’allenatore che rivela di soffrire di una neuropatia cronica che attacca il sistema motorio, facendo pensare all’abbandono della guida tecnica; ma, ormai l’abbiamo capito, Oscar Tabarez tiene troppo a quella maglia, a quella bandiera, e non ne vuole sapere di lasciarla sola, non vuole abbandonare i suoi ragazzi, vuole andare avanti: è la sua unica cura, perché la passione e l’amore per il gioco del calcio gli permettono e gli hanno permesso di rialzarsi e di dimenticar tutto. Emblematica la trasportata esultanza per il primo successo in questo mondiale, arrivato in extremis contro l’Egitto grazie alla zuccata dello specialista Gimenez, con anche le stampelle (ormai sue compagne di vita) lasciate alle spalle pur di elevarsi e alzare le braccia al cielo come a dire ‘ce l’ho fatta’, pur di tornare per un solo istante quel ragazzino spensierato di Montevideo che aveva un sogno: Vivere l’Uruguay.

Dispiace quindi che sia uscito così mestamente, perché per il suo attaccamento e per ciò che ha dato in questi anni, meritava di più. Di sicuro c’è che la sua squadra è uscita a testa altissima, contro una Francia indubbiamente superiore quantomeno dal punto di vista tecnico, e che lui abbia ancora una volta dimostrato al mondo del calcio cosa voglia dire guidare una nazionale con passione e coinvolgimento, come accadeva in un tempo lontano, quando il calcio era della gente e delle emozioni, e la ‘Celeste’ si affermava indomita nell’olimpo del calcio mondiale.

Leonardo Parigi
Nella mia vita ho praticato e seguito svariati sport e tutti mi hanno lasciato qualcosa, in cima alla lista il tennis e il calcio. Per passione ne scrivo.

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