Quelli che state per leggere sono due ricordi di nostri redattori sull’icona del basket Kobe Bryant, scomparso ieri in un incidente in elicottero insieme alla figlia Gigi e ad altre sette persone.
Arrivata la notizia a inizio partita (Fortitudo-Varese). Primi due quarti di buio totale. Dall’intervallo decido di concentrarmi sul match. Vinto, ma gli occhi sono gonfi pensando a Los Angeles. Arrivato a casa inizio a elaborare, a ricordare, a piangere dopo essermi trattenuto a Palazzo.
Di e con Kobe ho diversi ricordi, abbastanza personali.
1. Partita Lakers-Minnesota a Londra (2010), non gioca e prende fischi, mio padre fa una “magata” e entriamo nel tunnel degli spogliatoi: “Kobe! Mio nonno ha allenato tuo padre, a Reggio!” (in italiano) Si ferma, viene verso di noi, high five e due chiacchere e sorrisi (sempre in italiano) che mai scorderò.
2. Finale Olimpica di Londra 2012 (sempre all’O2 Arena) e oro contro la Spagna e io che ti guardavo dalla tribuna, a fianco Giovanni, mio vicino di casa e amico, sua sorella Sara e il loro papà GianGiacomo, che ora raggiungerai lassù.
3. Uno dei miei primi miei articoli su una testata nazionale (Lo Schema), sulla tua biografia, dall’Italia fino al “Dear Basketball”.
Kobe è la pallacanestro, è uno dei primi motori e promotori di NBA Cares, è un movimento, è lo Streetball con le prime scarpette in Adidas, è una mentalità, è il Black Mamba con la sacca firmata in Nike, è la sua capigliatura con l’8, è la sua pelata col 24. Kobe è due anni a Reggio Calabria, due a Rieti, due a Pistoia e due a Reggio Emilia, a seguire il padre Joe. È un brivido ad ogni intervista o dichiarazione ogni volta che parla italiano, facendolo sentire più “nostro”. Kobe è ambasciatore del basket, di sport e di vita, è ispirazione ed è un padre che accompagna la figlia alla Mamba Sports Academy, è questo e tante altre cose. Parlo al presente perché ci ha lasciato un lascito, e oggi un vuoto, così enorme, che vivrà per sempre, come le leggende sanno fare, perché Kobe Bryant va’ molto aldilà della palla a spicchi.
Siamo tutti “Devastati” (Manu Ginobili).
“Il più grande ad aver mai indossato il gialloviola” (Magic Johnson).
A cura di Riccardo Corsolini
Caro Kobe
Sei stato la scintilla che ha accesso l’amore tra il basket e un bambino di 6 anni che ti ha visto segnare 81 punti in una sola partita. All’inizio pensavo che avessero sbagliato a contare, mi sembrava impossibile che un solo giocatore avesse segnato i punti che di solito segna un’intera squadra, la verità è che ai tempi non capivo neanche la metà delle cose che facevi in campo. Cos’era un piede perno? Come si faceva un fade away? Quando venivano fischiati passi? Non ci capivo niente ma mi bastava averti visto fare quella partita per essere completamente rapito da quello sport meraviglioso che mi accompagna da quel giorno. L’amore fra me e il basket è nato grazie a te, grazie alla maglia numero 8 che ti faceva volare sopra il ferro come avessi le molle nelle scarpe, grazie ai pick and roll con Shaq e al triangolo di Phil Jackson.
Poi hai cambiato numero – dall’8 al 24 – e mentre tu segnavi un record dopo l’altro io crescevo e ogni mattina controllavo sull’app dell’NBA come avevi giocato, e poi al pomeriggio di ritorno da scuola guardavo sempre i tuoi highlighs della notte precedente, provando a capire come potevi scendere in campo ogni sera e lasciare ogni singola goccia di sudore del tuo corpo su quei 24 metri di parquet.
Mi ricordo le finali del 2010 quando in gara 5 decidesti di giocare da solo contro i Celtics e segnasti 38 punti con Buffa e Tranquillo che erano sempre più increduli dopo ogni canestro, io ti guardavo come avevo fatto tante volte e per la prima volta capì¬ che forse eri il più grande di sempre, che forse uno come te non sarebbe nato più.
Poi quella volta contro i Warriors quando ti rompesti il tendine d’Achille ma rimasi in campo per battere i liberi e facesti comunque 2 su 2, pensavo fossi fatto d’acciaio.
Ma purtroppo non avevo ragione, il tempo passava e le finals le guardavi sempre più spesso dal divano di casa e un giorno di novembre del 2015 aprì Instagram e vidi che c’era una lettera indirizzata a tutti i tuoi tifosi: parlavi dell’amore per il gioco, della dedizione, del duro lavoro e dei traumi che aveva subito il tuo corpo per vent’anni di carriera e annunciavi che a fine stagione avresti smesso di essere un giocatore di basket professionista.
Da quel giorno ho cercato di non perdere nessuna tua partita perchè volevo apprezzarti al massimo, fin quando ci saresti stato; a Filadelfia, campo mai amico, il pubblico ti ha tributato una standing ovation da far paura così come in tutte le altre arene dove per due decenni hai regalato poesia.
Poi è arrivato il 13 aprile 2016, sul mio iPhone la sveglia era impostata, la Red Bull era in frigo e io aspettavo solo le 3:30 del mattino per guardarti fare quello che ti riusciva meglio per l’ultima volta, ce l’ho ancora negli occhi quella partita: 60 punti! E poi il discorso finale, quando hai salutato e ringraziato tutti, conclusosi con quel “Mamba out” che ogni tanto vado a rivedere su Youtube. La mattina dopo andai a scuola senza dormire, non mi serviva dormire dopo quello che avevo visto, potevo vivere di quello, potevo cercare di non addormentarmi fra un’ora di economia e una di diritto pensando ai 60 punti della notte precedente e a tutto quello che c’era stato prima di quella notte. Da quando hai smesso niente è stato più come prima, niente più one man show, niente più video di te che ti allenavi alle 4 del mattino in pre season; però mi hai regalato tantissimo Kobe, mi hai regalato uno delle passioni che mi accompagnerà per tutta la vita, mi hai regalato alcune delle notti più belle della mia vita, quando bastavano tre cose: te, un pallone arancione e un canestro che tanto in qualche modo ci avresti fatto divertire.
Se ancora oggi quel bambino che più di 10 anni fa stava sveglio la notte per guardare i Playoffs continua a farlo – anche se adesso la mattina dopo ha lezione all’università – è merito della tua dedizione e della tua voglia di migliorarti sempre, e anche un po’ di quei canestri insensati che mettevi con tre uomini addosso, ammettiamolo.
Per questo io mi sento di dirti grazie dal profondo del cuore. Grazie per i canestri allo scadere e i tiri sbagliati. Grazie per i ritorni dopo gli infortuni e i momenti in cui avresti voluto mollare. Grazie per essere stato il Black Mamba. Grazie per sempre e per tutto.
A cura di Niccolò Frangipani
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