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Nkosi Sya-Keleli. Storia di un capitano

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Con quanta intensità un rugbista può stringere al petto la palla prima di andare a contatto? Più o meno forte di quanto un bimbo nato e cresciuto a Zwide, sobborgo di Port Elizabeth, possa abbracciare i cuscini poggiati in terra a mo’ di materasso su cui dorme, perché non scappino da tutte le parti? I due corni del dilemma sembrano completamente irrelati tra loro. O, almeno, qui dall’Europa lo sembrano: purtroppo, diversi bambini sudafricani potrebbero agilmente rispondere a questa domanda. Meno scontato è che un’opinione in merito la possieda anche la guida di una delle più blasonate squadre del mondo ovale, un ragazzone di ventotto anni con tutte le stimmate per diventare un’icona del suo sport e non solo: Siyamthanda Kolisi, detto Siya, il primo capitano nero nella ultracentenaria storia degli Springboks.

La parabola di Siya assume ancora più valore in un paese strano, sempre e di nuovo in cerca della sua unità, come il Sudafrica: nazione nominalmente arcobaleno, in cui la rappresentativa sportiva più importante, quella di Rugby appunto, è ancora costituita in grande maggioranza da giocatori bianchi, nonostante i tentativi federali di portare ai mondiali giapponesi del 2019 una compagine formata per metà da giocatori di colore; prospettiva poi naufragata. Forse è proprio la capacità di riunire in sé molte delle anime del suo paese a rendere Kolisi un simbolo potente. Aspetto a lui stesso non ignoto: gli è molto chiaro come ciascuno Springbok rappresenti per il suo paese molto più di quanto possa immaginare. Consapevolezza non facile da mettere assieme, soprattutto per un ragazzo cresciuto tra decine di stimoli diversi, maledettamente bisognosi di essere composti in qualche modo.

Per farci un’idea più completa, torniamo alle radici. Siya Kolisi nasce nei dintorni di Porth Elizabeth il 16 giugno 1991, proprio nel quindicesimo anniversario della rivolta di Soweto, uno dei momenti chiave per l’abbandono dell’apartheid; solo un anno e mezzo prima Nelson Mandela è uscito di prigione, anche se ci vorranno ancora tre anni perché Madiba si insedii al Mahlamba Ndlopfu, in qualità di presidente. In un momento tanto travagliato la famiglia di Siya non se la passa bene: i suoi giovanissimi genitori non hanno ancora terminato gli studi, i nonni materni non possono prendersi cura di lui; la nonna paterna lo porta a vivere con sé in una casa con due stanze, al numero 17 di Mtembu street, a Zwide. Ci vivono in cinque: lo spazio è ridotto, il letto di fortuna, c’è cibo quando c’è.

Guardando la situazione dall’esterno sarebbe fin troppo semplice pensare che ogni occasione di evasione da condizioni così difficili venga accolta come una manna, senza ripensamenti. Il legame tra Siya e la sua township di Zwide rimane invece molto forte, anche quando viene notato, naturalmente mentre a gioca a rugby, dai selezionatori di uno dei più prestigiosi collegi privati sudafricani: la Grey High School di Port Elizabeth. Nonostante la sostanziosa borsa di studio, Siya per diversi anni torna a casa ogni weekend, non si monta la testa. Non abbandona Zwide nemmeno quando cominciano a mancargli i punti di riferimento: la nonna, la madre e lo zio. Ciò che lui chiama “township conversion” non lo allontana dalle sue origini.
Quello con la Grey è comunque il primo contatto con un modo di vivere diverso, un mondo differente, un Sudafrica nuovo che, tra le altre cose, parla un’altra lingua. Il ragazzo sul campo è una furia, tra i banchi zoppica un po’ anche perché l’inglese per lui è ancora un corpo estraneo; non fatica però a trovare una soluzione: Nick Holton, suo compagno di squadra, si offre di insegnarglielo in cambio di qualche lezione di Xhosa, lingua madre di Siya. Al miglioramento nel gioco si affiancano nuove competenze fuori dal campo.

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Sya fuori dal campo, con la sua grande famiglia

Una delle regole base della palla ovale impone di entrare dal cancello giusto, il gate. Sbagliare ingresso è un fallo comune, Siya non vi incappa: la Grey è senza dubbio il cancello corretto verso il rugby che conta. Il solo fatto di aver studiato lì, dona un indiscutibile sangue blu rugbistico.
La maturazione procede a Western Province, anche qui su due binari: non basta migliorare l’attitudine al placcaggio – Kolisi ammette candidamente il poco amore dei ragazzi di Grey per questo fondamentale – bisogna anche familiarizzare con gli Afrikaner e quella loro strana variante dell’olandese. Siya e compagni non spiccicano una parola di afrikaans e gli altri stentano con l’inglese, una situazione che lui stesso definisce divertente. Non è difficile credergli, visto il solido rapporto di amicizia costruito con un Afrikaner DOC come Eben Ezebeth, bianco, di famiglia benestante tendenzialmente conservatrice. I due si intendono a meraviglia sul campo e fuori, in che lingua non è dato sapere.

Se essere una promessa degli Springboks porta con sé alcune responsabilità, essere un giovane Xhosa non è da meno e, soprattutto, non è per sempre: bisogna diventare uomini. Nel 2015, circa sei mesi prima di esordire con la nazionale, Siya deve affrontare il doloroso rituale di passaggio all’età adulta: circoncisione e successive tre settimane a vagare nei boschi attorno a Eastern Cape. Si matura in solitudine, ascoltando il dolore.
Passato questo, qualunque placcaggio deve sembrare una passeggiata, realtà dimostrata sul campo dove al talento cristallino si sommano doti naturali di leadership e capacità di gestire i rapporti con compagni e avversari senza avere paura di niente. Non ci mette molto a scalare le gerarchie, nei club e in nazionale: a giugno del 2018, alla vigilia di una serie di tre test che avrebbero opposto il Sudafrica all’Inghilterra, Siya viene nominato capitano degli Springboks, il primo di colore in centoventisette anni. Pochi mesi dopo la sua squadra batte gli All Blacks a casa loro, in una sfida al fulmicotone.
D’accordo, il nostro secolo è iniziato da poco, ma solo altri cinque giocatori possono vantarsi di aver battuto i Tuttineri in veste di capitano. Non tantissimi e tutti di spessore assoluto. Altro dettaglio: si sono già ritirati tutti, questo rende Kolisi l’unico giocatore attivo a essere riuscito nell’impresa.

Il ragazzo del ghetto è cresciuto collezionando esperienze, senza mai dimenticare le sue radici, anche questo gli ha permesso di essere il faro dei Boks, il capitano di tutto il Sudafrica.
La sua malgama, in effetti, non ha segreti: solo vita vissuta tradotta in atteggiamenti naturali. Tutto qui: creare solidi rapporti con tutti i suoi compagni, ai quali ha chiesto di dimenticare ogni appartenenza sociale o razziale; sposare una donna bianca con la quale ha dato alla luce uno splendido bimbo coloured, come lo chiamerebbero da quelle parti – il suo nome è Nicholas, come chi ha insegnato l’inglese al suo papà; cercare e ottenere in custodia, raggiunta la maggiore età, due suoi fratellastri, strappandoli a una realtà difficile per riunirli alla sua famiglia; trovarsi, alla fine di un insieme di percorsi tortuosi, proprio nel centesimo anniversario della nascita di Nelson Mandela, a capitanare gli Springboks con addosso una maglia parecchio evocativa: la numero sei con cui il Presidente entrò all’Ellis Park di Johannesburg per sollevare la Coppa del Mondo, in un giorno di giugno del 1995. Una ulteriore, curiosa, coincidenza porta Sya ad alzare la stessa coppa, alla fine del trionfale mondiale giapponese: quello che ha reso i Boks la squadra più titolata al mondo, assieme agli All Blacks naturalmente.
Tutti questi ingredienti hanno reso la ricetta vincente. Siya è il simbolo adatto per un paese all’affannosa ricerca di un’identità: una terra il cui inno, Nkosi Sikeleli appunto, chiede a Dio di benedire l’Africa in Xhosa e Sesotho, di ascoltarne il richiamo all’unità in Afrikaans e Inglese, dove la strofa intonata più forte cambia tuttora a seconda di dove si trovi lo stadio; dove le partite di rugby hanno ancora bisogno di due commenti diversi – in Xhosa l’uno, l’altro in Afrikaans; dove bisogna ancora parlare di quote razziali nello sport. Un paese, insomma, cui serve un capitano che abbia vissuto molta vita per poter guidare una squadra che non si limiti a giocare, possibilmente a vincere, ma che possa fungere da collante sociale perché le varie componenti non scappino da tutte le parti, come cuscini riottosi in un sonno agitato.
Sfida difficile? Non tanto più di quella di un bambino venuto al mondo senza prospettive e una sola certezza, contenuta nell’unica cosa che i suoi genitori potessero dargli davvero: il nome. Siyamthanda significa “Ti amiamo”.

Michele Polletta
Biellese di nascita, milanese per professione, sono cresciuto sportivamente tra il palazzetto della mia città e la salita di Oropa. Quando ho scoperto lo sport in televisione, poco importava la disciplina, non l'ho più lasciato. Per non parlare di quello stampato su carta. Nella vita insegno a scuola e mi diverto alla radio, o viceversa.

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