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Nuovo ospite della rubrica “L’interViSta” è Claudio Galli, ex pallavolista membro di quella “Generazione dei Fenomeni”, che è tuttora considerata la più forte nazionale di tutti i tempi. Giocando nel ruolo di centrale, in carriera ha vestito la maglia di Milano, Cuneo e Parma e collezionato oltre 200 presenze in nazionale. Il suo ricchissimo palmares vanta, oltre ai numerosi trofei nazionali ed internazionali vinti con il club, due World League e un oro europeo conquistati con la maglia azzurra. Negli ultimi anni si è fatto apprezzare come cronista ai microfoni di Rai Sport e ha poi avuto due brevi esperienze nello staff della Preimar Calci e della Savino del Bene Scandicci. A maggio ha pubblicato il suo primo libro “In viaggio con i fenomeni”, in cui racconta l’epopea di quella leggendaria nazionale, che tra il 1989 e per tutto il decennio successivo riuscì a rimanere stabilmente sul tetto del mondo e a fare innamorare gli italiani della pallavolo.
Con Claudio abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata a 360° sul mondo della pallavolo italiana e su quello dello sport in generale, ripercorrendo le sue esperienze presenti e passate. Inoltre abbiamo analizzato con lui la situazione attuale e le prospettive future, sia del campionato sia della nazionale.
Come hai trascorso il lock-down e cosa ha significato questo periodo di isolamento forzato per uno come te, abituato, prima da giocatore e poi da cronista televisivo, ad una vita socialmente intensa?
Sono stato sorpreso dal lock-down mentre mi trovavo a Scandicci, con la società insieme al quale stavo lavorando. Essendomi trasferito da poche settimane a lavorare con loro, in una cittadina che non conoscevo, non avevo ancora sviluppato una rete di amicizie nella zona. Ho trascorso questo periodo chiuso in casa e completamente da solo, a parte durante le videochiamate, che sono diventate uno strumento di contatto sociale fondamentale per riuscire a vedere i propri cari e scambiare qualche parola che andasse oltre il semplice “Grazie. Arrivederci” alla cassa del supermercato. Ne ho approfittato per leggere, per studiare, per documentarmi sui campi che mi interessano, ma la cosa più interessante è stata riscoprirmi animale sociale e sentire la necessità, molto più di quel che pensassi, di interagire di persona con gli altri. Questa esperienza mi ha fatto apprezzare ancora di più quelle piccole cose della quotidianità che prima sembravano banali e non pensavo mi potessero mancare così tanto. Ad esempio, per me è stato emozionante un gesto semplice come gustare a casa la brioche appena comprata, al momento della riapertura dei bar pasticceria su servizio da asporto e, ancor più bello, è stato il poter tornare a sedersi ai tavolini dei locali.
La tua vita è stata caratterizzata da continue trasferte. Come è stato il poter ricominciare a viaggiare?
Ai primi di Marzo, prima della proclamazione del lockdown, avevo viaggiato prima a Milano e poi a Parma in treno e mi aveva suscitato una forte impressione vedere gli sguardi sospettosi che si scambiavano i pochi passeggeri presenti sui vagoni. Anche trovare stazioni e metropolitana pressoché deserte rendeva l’atmosfera in cui mi trovavo surreale e mi aveva fatto capire ancora di più la gravità del momento e la straordinarietà della situazione. Poiché i contatti sociali sono la cosa di cui più avevo sentito la mancanza, appena le disposizioni governative lo hanno permesso mi sono mosso per andare a trovare le varie persone che conoscevo e il poter tornare a viaggiare è stata una piacevole riscoperta.
A inizio Aprile la Federazione Italiana Pallavolo ha decretato la conclusione anticipata di tutti i campionati 2019-20. Pensi che si sarebbe potuto prendere tempo e provare a concludere la stagione come è avvenuto nel calcio o che, data la situazione eccezionale, sia stata presa la miglior decisione possibile?
Potendo valutare quella scelta in base a quello che è successo dopo, direi che è stata la decisione più saggia da prendere perché non c’erano, così come non ci sono tuttora, le condizioni adatte per poter giocare. A posteriori, bloccare tutto e porre fine a questa sfortunata stagione secondo me è stata la scelta migliore, sebbene in quel momento poteva sembrare che ci potessero essere delle alternative. Al momento il calcio sta facendo da apripista su tante situazioni: le sfrutteremo per cercare di tornare alla normalità nel tempo più breve possibile, pandemia permettendo. Ai primi di Luglio ricomincerà la preparazione delle squadre e si potrà finalmente tornare in palestra a lavorare sul serio. Spero che gli allenamenti si possano svolgere senza l’obbligo di mascherina o non capirei il motivo per cui i calciatori possano giocare senza mascherina mentre nella pallavolo, invece, si debbano tenere.
A tal proposito, pensi che il protocollo che era stato emanato dalla Federazione per la ripresa degli allenamenti, che imponeva utilizzo della mascherina, disinfezione dei palloni e delle mani al termine di ogni esercizio, fosse troppo restrittivo?
Queste limitazioni sono incompatibili con la pallavolo, la trasformano in uno sport completamente diverso. Dobbiamo però pensare al contesto in cui sono state inserite: sono indicazioni che venivano date in maniera molto conservativa per poter ritornare in palestra e riassaporare un minimo contatto con la palla, ma evitando qualsiasi problematica. Questi protocolli verranno aggiornati molto velocemente in modo da ricominciare a giocare a pallavolo, altrimenti non riuscirei a capire perché il calcio ha potuto da subito tornare ad allenarsi e giocare normalmente, mentre nel nostro sport, nel quale il contatto fisico è peraltro minore, non si possano fare le stesse cose. A me fa piacere che il calcio abbia avuto questi privilegi perché segna un precedente per cui non si potrà limitare o dire di no alla pallavolo quando chiederemo di avere lo stesso trattamento, altrimenti non sarebbe compatibile con la nostra Costituzione. Mi riferisco soprattutto al fatto che per non falsare il campionato alle squadre di calcio è stato concesso, nel caso venga trovato un giocatore positivo, che i compagni non debbano necessariamente andare in isolamento. Spero vengano utilizzati gli stessi criteri anche per gli altri sport perché diversamente si tratterebbe di una discriminazione inaccettabile.
Cosa pensi del fatto che la pallavolo era stata inserita, nello studio condotto dall’Università di Torino, tra gli sport a più alto rischio, addirittura più di basket e calcio?
La pallavolo era stata giudicata sport ad alto rischio durante la fase preliminare dello studio, probabilmente impostando dei paramenti molto più conservativi per il volley rispetto ad altri sport, ma tale giudizio è stato poi in parte smentito dalla stessa Università quando è uscito il risultato definivo. D’altronde sarebbe stato di difficile comprensione l’attribuzione alla pallavolo di un indice di pericolosità maggiore della pallacanestro, quando questi due sport in molti casi condividono gli stessi ambienti e nel basket si ha un contatto fisico più ravvicinato. Purtroppo questa anticipazione errata ha creato un danno d’immagine al nostro movimento e spero che adesso sia stato compreso da tutti, anche da chi non conosce il nostro sport, che la situazione reale è ben diversa.
Generalmente, per la maggior parte dei pallavolisti di vertice poco dopo la conclusione del campionato iniziano gli impegni con le rispettive nazionali. Come ex atleta, quanto pensi possa influire dal punto di vista della forma fisica questo stop prolungato ed inedito?
Indubbiamente si tratta di una situazione completamente nuova, ma ritengo che per alcuni giocatori di vertice il fatto di aver potuto dare al proprio fisico uno stacco netto e prolungato sia positivo. Se, da un lato, la ripresa sarà più difficoltosa del solito poiché non vi è l’abitudine ad un periodo di inattività così duraturo, è anche vero che uno dei problemi principali di tanti atleti erano il sovrallenamento e la mancanza di un sufficiente periodo di riposo tra la conclusione della stagione del club e l’inizio di quella delle nazionali. Pertanto, l’aspetto positivo di questo blocco dell’attività è che il fisico ha avuto il tempo di rigenerarsi e non essere soggetto continuamente a quei traumi che tutti gli spot di altissimo livello comportano. Inoltre, poiché sia i giocatori che gli allenatori fremono per ricominciare gli allenamenti il prima possibile, la mancanza di competizioni internazionali permetterà di allungare la preparazione atletica rispetto alle canoniche 8 settimane e di ritrovare la forma migliore per l’inizio del campionato.
Alcune nazionali, come Serbia e Polonia, hanno comunque chiamato in ritiro i propri atleti. Secondo te, anche pensando a Tokyo 2021, è stata una decisione condivisibile o avventata?
Così come tutti noi desideriamo tornare a fare una vita normale, giocatori ed allenatori hanno una enorme voglia di rientrare in palestra ad allenarsi e ad allenare, perché quando si è abituati a svolgere sport ad alto livello tutti i giorni, si sente la mancanza dell’attività fisica. A questo proposito, ho parlato con diversi atleti e atlete che accusavano, soprattutto nella fase iniziale, molti problemi a dormire non riuscendo a consumare la consueta energia. Sebbene in chiave di Tokyo non abbia nessuna valenza fare due settimane di allenamento in più adesso rispetto ad un appuntamento che si svolgerà fra più di un anno, la scelta di quelle federazioni posso comprenderla nell’ottica del desiderio di riprendere prima l’attività.
In tutti questi anni, pur rivestendo ruoli diversi, sei stato sempre immerso nel mondo della pallavolo. Quale reputi sia il valore più importante che questo sport ti ha trasmesso? C’è qualche insegnamento della pallavolo e ti è servito nella vita di tutti i giorni?
Tutta la mia vita è stata incentrata sulla pallavolo. La pallavolo mi ha formato, mi ha plasmato, mi ha trasmesso moltissimo ed è un processo che non posso ancora definire concluso perché da essa imparo costantemente. Non c’è un unico aspetto che posso dire mi sia stato trasmesso perché tutto è dipeso dalla pallavolo: quello che sono diventato, quello che penso, come penso, le esperienze che ho fatto e che hanno dato forma al mio modo di essere. Qualsiasi cosa, anche i respiri che faccio, dipendono da ciò che mi ha insegnato e che continua ad insegnarmi ogni giorno il mondo della pallavolo.
La tua è una stupenda dichiarazione d’amore verso la pallavolo, ma dalle tue parole traspare un legame profondo con lo sport in generale. Pensi che se non avessi scelto il volley, la tua vita sarebbe stata comunque dedicata allo sport?
Il mio mondo di riferimento è sempre stato quello sportivo. Sono legato allo sport in generale e ne sono stato attratto fin da subito: ho cominciato minibasket a 6 anni, ho praticato 4 anni di tennis e un anno di atletica. Come descrivo nel libro, mi sono innamorato dello sport totalmente e perdutamente all’età di 11 anni guardando le Olimpiadi di Montreal del 1976 e poter partecipare alle Olimpiadi è stato il mio sogno più grande. Credo che lo sport, in un modo o nell’altro, avrebbe comunque segnato la mia vita. Fortunatamente ho trovato lo sport probabilmente più confacente a determinate mie caratteristiche fisiche e mentali e ho avuto il vantaggio di essere portato nella disciplina che ho scelto, riuscendo ad arrivare ad un discreto livello. Il libro è stato anche un’occasione per esprimere il mio punto di vista sul concetto di talento. Molti pensano che il talento sia una dote innata e che un atleta in grado di eccellere in un determinato ambito sportivo sia semplicemente fortunato perché naturalmente fornito di una speciale predisposizione. In realtà il talento è sicuramente importante, ma non è nulla senza il lavoro. La nazionale della “Generazione dei Fenomeni” non sarebbe diventata quella che tutti noi conosciamo se non ci fosse stato un progetto serio e lungimirante, organizzato per raccoglierne i frutti ad oltre 10 anni di distanza. È incredibile la genialità dimostrata da un grandissimo allenatore come Carmelo Pittera, che abbia avuto l’idea di creare un gruppo di ragazzi giovanissimi, allenarli dall’età di 14-15 anni e formarli da un punto di vista tecnico e mentale, con l’obiettivo di provare a diventare la nazionale più forte del mondo nel decennio successivo. Quello che cerco di esprimere nel libro è proprio la eccezionalità di quel progetto, che appare ancor più straordinario se pensiamo ai tempi rapidissimi che vigono al giorno d’oggi e alla programmazione minima che si fa in questi anni nello sport e in qualsiasi aspetto della vita di una persona.
Come è nata l’idea del libro? È un progetto nato recentemente o che avevi in mente già da tempo?
Quello di scrivere un libro è un sogno nel cassetto che ho sempre avuto, ma sul quale non avevo mai iniziato a lavorare seriamente. Poi un mio caro amico, durante una chiacchierata, mi ha fornito lo stimolo giusto, chiedendomi perché non scrivessi un libro sull’esperienza straordinaria della Generazione dei Fenomeni, visto che finora non era mai stato scritto e io avrei potuto raccontarla dall’interno. Non mi piacciono le autobiografie e non le ho mai lette volentieri, anche se so che in campo sportivo ce ne sono alcune straordinarie, quindi ho accettato la sfida, ma non ho scritto un’autobiografia. Questo libro, infatti, non racconta la mia storia, ma la storia del progetto che ha portato a creare una nazionale capace di vincere 3 titoli mondiali consecutivi.
Qual è il tuo ricordo sportivo più bello?
In carriera ho vissuto delle annate straordinarie e delle annate in cui i risultati sperati non sono arrivati per una serie di motivazioni, ho avuto la fortuna di partecipare a due olimpiadi e sono andato molto vicino alla partecipazione anche alla terza. Tuttavia, mi risulta difficile isolare un ricordo più significativo in assoluto perché ce ne sono tanti emotivamente molto forti e le sconfitte, in particolare quelle olimpiche, lo sono ancor più delle vittorie. Nel complesso direi che tutto il percorso che ho affrontato è probabilmente quello che mi è piaciuto di più.
Hai un personaggio sportivo di riferimento, che ti ha ispirato particolarmente nel corso della tua carriera?
Non uno soltanto, ne ho avuti diversi. Anche se non ho mai idolatrato nessuno, ho ammirato la straordinarietà e la grandezza di certi personaggi sportivi. Da giovane, ad esempio, mi aveva particolarmente colpito la storia di Edwin Moses, capace di vincere 107 finali consecutive nei 400 ostacoli, poi ho apprezzato come grandissimo vincente Micheal Jordan e negli ultimi anni, piacendomi molto il tennis, non posso non amare Roger Federer per il suo talento cristallino. Anche, Andrea Giani, con il quale ho giocato tanti anni, per me rappresenta lo sportivo per antonomasia, dotato di una qualità e di una mentalità sportive che raramente ho ritrovato in qualcun altro. Basti pensare che nel canottaggio, il primo sport da lui praticato, vinse 79 gare su 80, gareggiando con ragazzi anche di due anni più grandi e, una volta passato alla pallavolo, giocò titolare in serie A2 già a 14 anni.
Secondo te, la conclusione anticipata della stagione 2019-20 e la profonda incertezza sulle condizioni in cui si potrà giocare la prossima porteranno ad un impoverimento del nostro campionato?
Ci sarà un ridimensionamento economico, che però non porterà ad un ridimensionamento del livello tecnico. Anche quest’anno, come tutti gli anni, per alcuni campioni che hanno lasciato l’Italia ce ne sono altri che vi sono approdati e gli atleti, a parte qualche caso sporadico che non accettando le nuove condizioni economiche ha preferito andare a giocare all’estero, sono rimasti grosso modo gli stessi. Sono convinto che avremo ancora un campionato bellissimo, dove la qualità delle squadre in gioco, il livello dello spettacolo offerto e i valori delle emozioni vissute dai tifosi rimarranno sempre di valore assoluto.
Il fatto che nell’anno preolimpico alcuni giocatori della nazionale, come Nelli, Zaytsev e Sorokaite, giochino all’estero, può essere un’opportunità per confrontarsi con altri campionati o piuttosto uno svantaggio in termini di livello di gioco?
Credo che il campionato italiano come gestione, organizzazione e difficoltà media delle partite sia il miglior campionato al mondo. Poi non è detto che ogni anno ne esca la squadra più forte del mondo, ma il livello medio delle partite è sempre elevato e questo spinge gli atleti a ritmi di allenamento intensi. Alcuni campionati sono di più basso livello, come quello di Giappone, Corea, Cina, altri campionati invece consentono di confrontarsi con dei talenti fisici e un tipo di pallavolo diversa da quella nostrana e quindi potrebbero arricchire il bagaglio individuale. In generale, credo che dove giochino quest’anno i nostri atleti faccia comunque poca differenza, perché la cosa davvero importante sarà non subire infortuni importanti e arrivare in forma all’appuntamento che conta.
Per far fronte alle perdite subite dalle società, la Lega Pallavolo ha sancito per la stagione 2019-20 una importante decurtazione degli stipendi degli atleti. Pensi che passare dal dilettantismo al professionismo possa essere utile al movimento pallavolistico e garantire maggiori tutele agli atleti?
Il professionismo a livello concettuale mi trova d’accordo, ma non sarebbe la soluzione per risolvere i problemi del mondo della pallavolo. Finora il passaggio al professionismo non è mai stato preso seriamente in considerazione per un problema di fattibilità economica. Passando al professionismo le società subirebbero un aumento dei costi nell’ordine del 30-40% e per poter far fronte alle spese ribalterebbero questi costi sugli atleti. Il rischio è quello del ripetersi di una situazione analoga a quella verificatasi nella pallacanestro in cui, in virtù del passaggio al professionismo, le società italiane hanno diminuito le capacità di ingaggiare fuoriclasse stranieri e per un certo periodo non hanno più potuto essere competitive a livello internazionale. Nel caso specifico di questa sfortunata stagione interrotta dalla pandemia, il fatto di voler ridiscutere i contratti non è stato un capriccio delle società per approfittare della situazione, quanto piuttosto una necessità per non soccombere. Le società, infatti, hanno dovuto fare i conti sia con i mancati incassi delle partite non giocate che con la sensibile riduzione da parte di molti sponsor del contributo promesso. A causa degli ingenti danni economici subiti un ridimensionamento degli ingaggi rappresentava per molte squadre l’unica possibilità per iscriversi al prossimo campionato e a farne le spese, ancora una volta, sono stati gli atleti. È anche vero che tanti di loro hanno compreso che si trattava in una situazione eccezionale, si sono resi conto che ne andava della sopravvivenza stessa delle rispettive squadre e hanno deciso di accettare una riduzione degli stipendi.
Pensi che servirebbe maggior coesione tra i pallavolisti per cambiare realmente le cose?
Ormai sono tanti anni, da metà anni ‘80 che si prova a costituire un’associazione giocatori che tuteli gli interessi collettivi, ma per disinteresse degli atleti stessi nessuna di queste ha preso piede o è durata a sufficienza per poter difendere i diritti di tutti. Ciò che è successo in passato è che non c’è mai stata una vera presa di coscienza globale da parte di tutto il movimento e queste associazioni, dopo aver suscitato un iniziale interesse, magari sotto la spinta di qualche giocatore importante, nel lungo periodo sono state poi sempre abbandonate. Magari questa situazione eccezionale porterà negli atleti una consapevolezza diversa e si riuscirà finalmente a fondare qualcosa di duraturo.
Nel 2019, a livello giovanile, la nazionale maschile ha conquistato un oro e un argento mondiale, ma pochi di questi giovani hanno trovato spazio nei club di Superlega, venendo spesso rimpiazzati da coetanei stranieri. Qual è la problematica alla base del ridotto impiego di giovani italiani nel nostro campionato?
Si tratta principalmente una questione economica: giocatori stranieri provenienti da paesi dove il costo della vita è minore rispetto al nostro accettano delle cifre contrattuali decisamente inferiori a quelle che verrebbero proposte agli italiani. Non sono però del tutto d’accordo sul fatto che i nostri giovani non vengano valorizzati. Credo che lo sport sia ancora uno dei pochi ambiti meritocratici in cui chi ha talento alla fine riesce comunque a trovare spazio e ad emergere. L’anno scorso, ad esempio, Lavia a Ravenna e Gironi a Milano, hanno potuto giocare da titolari. Inoltre, diventa difficile fare un paragone con realtà che sono completamente diverse dalle nostre: negli Stati Uniti i giocatori iniziano a maturare a 23-24 anni quando finiscono l’esperienza universitaria e approdano nel campionato italiano poiché si confrontano con una pallavolo di livello superiore e hanno bisogno di imparare tecnicamente e tatticamente. Da noi, per motivazioni che non sono solo legate alla difficoltà di trovare spazio nei club ma anche alle condizioni di sviluppo dei ragazzi nelle famiglie, la maturazione avviene più tardi, a meno di trovarsi di fronte a talenti straordinari che emergono precocemente.
Per quanto riguarda l’età media dei titolari in nazionale la situazione è notevolmente diversa tra maschile e femminile. Come si spiega?
Nella nazionale femminile sono più numerosi i giovani talenti che approdano presto in prima squadra perché il bacino di utenza della pallavolo femminile è molto più ampio rispetto a quello della maschile e quindi c’è a disposizione più materiale umano di partenza. Il settore maschile, invece, subisce la concorrenza di altri sport e non è stata ancora trovata la formula giusta per arrestare la continua emorragia di tesserati in atto negli ultimi anni. Forse si poteva iniziare prima ad inserire in nazionale seniores qualche ragazzo giovane in maniera sperimentale, subito dopo le olimpiadi di Rio, invece si è aspettato l’anno scorso in occasione della VNL. Ma bisogna sempre considerare che in Italia siamo molti critici e mettere in campo una nazionale che non ottiene risultati, anche se si tratta di una competizione come la VNL nella quale non otteniamo successi da moltissimo tempo, provoca una certa delusione.
Pensi che per i giovani come percorso di crescita sia meglio fare panchina in serie A1 o essere titolare in A2?
Non esiste una strada univoca per riuscire ad emergere. Entrambe le strade possono essere valide, dipende dal momento della propria carriera, dall’età, dal ruolo. Il vantaggio di essere in una squadra di A1, anche non trovando spazio, è che ci si allena ad un livello molto più alto e si hanno davanti agli occhi campioni da cui apprendere, che rappresentano una sfida continua e uno stimolo ad arrivare al loro livello. Dall’altro lato, trovandosi in una squadra di A2 ci si allena ad un livello più basso, ma si hanno più possibilità di fare esperienza sul campo. Anche a livello della massima serie non tutte le situazioni sono uguali: una squadra che lotta per vincere lo scudetto difficilmente correrà il rischio di far giocare titolare un ragazzo giovane ed inesperto, a meno che non sia un talento straordinario, mentre squadre più modeste più facilmente gli daranno spazio. Generalmente si fa un percorso graduale: si esordisce in squadre con ambizioni inferiori, ma comunque solide e ben organizzate, si iniziano a far vedere le proprie abilità, ci si ritaglia progressivamente spazio sul campo e si dimostra di avere le potenzialità per giocare ad alto livello. A questo punto di solito i talenti emergono e fanno poi il salto in squadre di livello superiore.
Hai mai pensato di fare l’allenatore?
Quando ho terminato la carriera da giocatore non ho mai pensato di fare l’allenatore perché mi sembrava un percorso troppo simile e preferivo invece cimentarmi in un ambito diverso, anche se sempre collegato al mondo sportivo. Poi qualche mese fa mi è capitato di fare sostituzione ad un amico come allenatore ai bambini di 11-12 anni e abbiamo instaurato un buon feeling, ma si è trattato di una vicenda occasionale. Per fare l’allenatore bisogna avere delle qualità che non ho mai approfondito in questi anni e io sono ormai fuori tempo massimo per quel tipo di esperienza, anche perché ho visto che praticamente tutti gli ex giocatori prima di diventare allenatori hanno avuto bisogno di un periodo di tempo in cui scrollarsi di dosso i panni e la mentalità dell’atleta e vestire quelli dell’allenatore. Molti di questi ex giocatori sono poi diventati allenatori di altissimo livello, che hanno ottenuto grandi risultati sia in Italia che all’estero, come Prandi, Gardini, Giani, Anastasi, Giuliani, Guidetti, De Giorgi, Bernardi, quindi posso dire che hanno fatto bene ad intraprendere quella carriera, ma non era la mia strada.
Quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro?
Sono da poco entrato nello staff della Powervolley Milano, dove mi occuperò dell’area commerciale e quindi un ambito leggermente diverso rispetto a quello dell’attività sportiva vera e propria. Sono poi coinvolto in un progetto che permette alle persone di risparmiare sugli acquisti e sarò impegnato nella promozione del libro, non appena potranno riprendere questo tipo di attività. Mi occupo inoltre di coaching aziendale e per questa attività mi baso molto su ciò che mi ha insegnato la pallavolo. Il coaching è, infatti, una filosofia di vita che deve aiutarti a vivere bene e affrontare serenamente le peripezie che ci possono essere quotidianamente. In tal senso, la pallavolo mi permette di vedere i momenti di difficoltà come una sfida, un momento di crescita, una partita da affrontare cercando di trovare le contromisure e senza piangerci addosso come recitava uno dei grandi insegnamenti di Velasco che ci hanno permesso di arrivare ad ottenere grandi risultati sportivi.
Un enorme ringraziamento a Claudio per la grande disponibilità dimostrata e un in bocca al lupo per i suoi progetti futuri.
Immagine in evidenza: ©Instagram, Claudio Galli
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