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La lotta per la sopravvivenza della boxe olimpica

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Il pugilato sta vivendo anni particolarmente tribolati, come forse non era mai avvenuto prima. Costantemente colpevolizzato di non essere uno sport, meno ancora una “nobile arte“, in quanto cruento e violento; la società sta, solo per certi versi, progredendo, così come anche le Olimpiadi. E tutto ciò, unito ad una gestione “politica” più che rivedibile da parte di figure discutibili stava gentilmente accompagnando la boxe fuori dalle grazie del CIO e della manifestazione a cinque cerchi.

Le Olimpiadi sono la più grande manifestazione sportiva che ci sia. In alcuni sport, è addirittura l’unica possibilità di potersi ritagliare un piccolo spazio di gloria generalista. Il pugilato, dal canto suo, c’è sempre stato a partire da St. Louis 1904. L’unica volta in cui è stato estromesso risale al 1912 ai Giochi di Stoccolma, perché, sembra incredibile, era rigorosamente vietato dalle leggi nazionali (e lo è stato fino a qualche anno fa).

Ora, il pugilato stava rischiando di uscire dal programma olimpico perché vittima di loschi signorotti che si vantavano di gestire una storica arte che stava man mano perdendo quel suo dolce lato nobile che sempre l’ha contraddistinta.

Fin dagli albori, le Olimpiadi sono state un affare per “dilettanti” e l’organizzazione affidata all’AIBA (Association International de Boxe Amateurs), attuale IBA (molto più semplicemente International Boxing Association). E fin qui, nulla di che.

Problemi di gestione

Il problema risiede in chi, nel corso di ultimi anni, è stato nella sala bottoni di quest’organizzazione. Prima Wu Ching-kuo, taiwanese, colpevole di reati finanziari; poi Gafur Rakhimov e Umar Kremlev, uno uzbeko e l’altro russo, entrambi vicini a Vladimir Putin e, a quanto pare, coinvolti per vie traverse anche in affari del KGB e nella recente tragica invasione dell’Ucraina.

A tutto ciò, aggiungiamoci sponsor di provenienza quasi esclusivamente russa e risultati di incontri che definire opinabili è poco. Il CIO, l’allarme, l’aveva acceso già da tempo. Prima diffidando l’IBA; poi, visto che i problemi non si risolvevano, minacciando l’esclusione della disciplina dal programma olimpico. È bene ricordare che già a Tokyo 2020, gli eventi del pugilato furono organizzati direttamente dal CIO con arbitri e giudici accuratamente selezionati. 

Adesso, fortunatamente, le acque sembrano essersi calmate. La boxe sarà parte dei Giochi sia a Parigi 2024 che a Los Angeles 2028 con una gestione diretta del CIO tramite una task force interna. Chiaro è che non si potrà andare avanti così per molto e quindi c’è già un nuovo ente che si propone di gestire il mondo del pugilato olimpico: si chiama semplicemente World Boxing e vedremo cosa deciderà a proposito il CIO. 

Quell’organizzazione di cui sopra che di sportivo aveva ben poco è stata definitivamente estromessa dal movimento a cinque cerchi ma questo, in realtà, significa ben poco.

Chi continua ad organizzare i tornei di qualificazione olimpica? L’IBA. E quindi, come la mettiamo? L’IBA non fa più parte della Olimpiadi ma continua, sostanzialmente, a farne parte. In più, chi continua a gestire tutto il mondo del pugilato giovanile, base di tutto il movimento? Sempre L’IBA.

Tant’è vero che la Federazione Pugilistica Italiana (nella persona del presidente Flavio D’Ambrosi) non ha ancora azzardato l’uscita dall’organizzazione di Kremlev. Questo non perché l’appoggi o ne condivida pensieri e parole ma unicamente perché arrecherebbe un danno inimmaginabile a tutti i ragazzi e le ragazze che praticano boxe: non avrebbero più, ad esempio, la possibilità di partecipare a competizioni giovanili di livello. Per cui, da questo punto di vista, la FPI, supportata dal CONI, dovrà gestire al meglio questo periodo di transizione.

Sport, non guerra

Il pugilato è uno sport pericoloso in cui si può anche morire, ma quanta gente sarebbe morta se non ci fosse stato il pugilato?” Queste parole sono di Rino Tommasi, uno che di pugilato ne sa abbastanza. Sono dure e crude ma racchiudono un po’ tutta l’essenza della boxe e non solo. 

Siamo ormai in una società in cui il politicamente corretto ha corroso qualsiasi capacità di lucida analisi e di ragionamento. Il calendario dice 2023 e qualcuno imperterrito definisce il pugilato uno sport diseducativo e che istiga alla violenza. Quello che questo tipo di persone forse non capiranno mai è tutto ciò che c’è dietro un pugile e dentro una palestra. L’esempio di Pino Maddaloni e dell’impatto del judo nella sua Scampia è lampante. Gli sport da combattimento non rendono i ragazzi cattivi o dei delinquenti, né tantomeno li portano sulla cattiva strada. Anzi, fanno esattamente l’opposto.

Combattere contro una persona su un ring, un tatami o una gabbia significa mettere in pratica un’arte, con lo scopo di prevalere, certo, ma senza l’intenzione di fare del male o creare pericolo per l’altro. 

Non è una guerra, quella è la cosa più ignobile che esista al mondo e l’ultima a cui uno sport da combattimento possa essere accostato. Qualcuno, decenni fa, aveva ordinato a Muhammad Ali di andare a Saigon ad uccidere dei Viet Cong. La sua risposta è diventata iconica ma è l’unica risposta che un pugile potrebbe dare. Ma alla fine, pensateci bene, chi potrebbe mai dare del violento a un Maddaloni, un Nino Benvenuti o un Vito Dell’Aquila? Dai, su!

Immagine in evidenza: © Sports Illustrated

Giuseppe Bernardi

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