Tennis

La leggenda della Coppa Davis

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La Coppa Davis così come l’abbiamo conosciuta non esiste più. Il nuovo format che stiamo imparando a conoscere in questi giorni è assolutamente qualcos’altro, non peggiore o migliore, ma senza dubbio qualcos’altro. Come in La leggenda del pianista sull’oceano, alla fine è arrivato quel giorno, quello in cui la “Virginian” è stata demolita. E noi siamo qui a ricordare quei week-end di Davis che hanno scandito le nostre vite, proprio come Max Tooney, l’ultimo dei romantici, rivive le avventure vissute sul transatlantico che sta per scomparire col suo amico Novecento. Lo avevano trovato a bordo il 1º gennaio del 1900 quel neonato dal nome evocativo, accompagnandone la crescita tra gli oceani fino a vederlo diventare un pianista da leggenda. Mai Novecento aveva voluto abbandonare la sua nave, il suo mare; la modernità lo impauriva. Tutta quella fretta, la velocità, non faceva per lui.

È esattamente quello che è avvenuto ad un’altra creatura nata nel 1900, regalata al mondo del tennis da Dwight Filley Davis e resa leggendaria da tanti altri lungo 118 anni di storia. La più antica competizione mondiale a squadre per nazionali, pur essendo il tennis uno sport individuale. Ognuno ha i propri ricordi da portare con sé, legati al proprio personale vissuto emozionale. E quante storie: quei primi 72 anni, funestati dalle due guerre mondiali, in cui ad aggiudicarsi l’insalatiera erano stati sempre e soltanto Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Francia e la prima Davis strappata dalle mani di queste quattro potenze, quella del 1973, ma vinta dal Sudafrica senza nemmeno giocare la finale, perché l’India si rifiutò di andare a giocare dove vigeva la politica dell’apartheid. E poi le memorie azzurre: quella unica vittoria in Cile nel 1976, con le due magliette rosse di Panatta e Bertolucci in dissenso al regime di Pinochet, e le indimenticabili maratone di Gaudenzi e Nargiso una ventina di anni dopo.

La Coppa Davis, proprio come Novecento, non si è mai voluta piegare alla velocità di un mondo che più va avanti e meno riesce a sopportare i tempi lunghi. Giocare 3 set su 5 anziché 2 su 3 non è più accettabile, se non sei uno slam (e anche lì, vedremo ancora per quanto). Quattro week-end in un anno e quattro singolari sono troppi, meglio tagliare, più veloce. Via le mitiche trasferte, tutti insieme nello stesso posto in un’unica settimana, e pazienza se si perde quella componente di atmosfera creata dal tifo di casa e da pochi coraggiosi che affrontavano la trasferta. Novecento non sopportò che la sua musica finisse su un vinile, la Davis non ha sopportato che la storia e la tradizione venissero confezionate con un bel fiocco. L’albo d’oro continuerà a recitare nomi da aggiungere a quelli già impressi nella storia dell’insalatiera, ma non sarà più lo stesso.

Il mondo va avanti, è naturale che sia così, allora la Coppa Davis è rimasta sulla “Virginian”, come Novecento, e se n’è andata insieme a lei. Ma le leggende non muoiono mai. Dopotutto: “non sei mai davvero fregato finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”.

Vincenzo Bruno
Laureato in Lingue e Letterature Moderne, nato a Palermo nel 1983, vive a Isola delle Femmine, piccola località costiera alle porte del capoluogo siciliano. Aspirante insegnante e appassionato di sport, letteratura e storie, nella sua pagina Instagram “Gente di Sport” alimenta l’amore per la scrittura facendovi convergere spesso le sue più grandi passioni. Due suoi racconti brevi, Notti Bianche e La Prima Volta, sono stati inseriti nella raccolta Pausa caffè: letteratura espressa, pubblicata da Prospero Editore nel 2016.

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