Il Mondiale del 1950 è ricordato da tutti per il “Maracanazo”, una partita che gli uruguagi conservano nell’angolo più nobile del proprio cuore, i brasiliani come una tragedia che in parte si è ripetuta oltre sessant’anni dopo. Quell’edizione viene tuttavia ricordata per la tragicomica spedizione dell’Italia, ricordata più per gli innumerevoli problemi organizzativi che per le pur confortanti prestazioni sportive.
IL GRANDE TORINO E LA TRAGEDIA DI SUPERGA
Prima di iniziare questo viaggio va ricordato come gli azzurri si presentassero al primo Mondiale del Dopoguerra da campioni in carica, complice il successo ottenuto in Francia nel 1938 e pronti a cercare di cogliere una storica tripletta. Chiaramente in dodici anni il mondo intero, compreso quello del calcio, era cambiato, eppure l’Italia si preparava a sbarcare in Brasile ancora una volta con i favori del pronostici complice un cambio generazionale favoloso rappresentato dall’undici del Grande Torino. Sì, proprio quella prodigiosa squadra guidata da Valentino Mazzola che, dopo aver pagato lo scotto del Secondo Conflitto Mondiale, aveva sbaragliato ogni avversaria nella penisola vincendo cinque scudetti consecutivi e una Coppa Italia.
Considerato da molti come la squadra più forte del globo, il team granata era diventato la principale colonna della Nazionale toccando il record di giocatori impiegati l’11 maggio 1947 quando al Comunale di Torino scesero in campo in dieci superando in amichevole per 3-2 l’Ungheria di un certo Ferenc Puskás. Nonostante qualche pesante sconfitta con corazzate dell’epoca come Austria e Inghilterra, Mazzola, Loik e compagni sembravano esser pronti ad affrontare l’ultimo ballo della loro carriera, probabilmente il più importante e quello che quasi certamente avrebbe consentito loro di entrare nella leggenda. Quella maledetta amichevole di fine stagione con il Benfica e la nebbia di Superga cancellò di colpo i sogni del Grande Torino e di un’intera generazione di tifosi che quel tragico 4 maggio 1949 piansero una squadra che non sarebbe mai più tornata.
Quel dannato giorno segnò l’esito dei Mondiali 1950 per l’Italia che si ritrovò a far i conti da una parte con la scomparsa dei propri eroi, dall’altra la cacciata di un altro pilastro iridato come Vittorio Pozzo, considerato l’uomo del passato e colpevole della pesante sconfitta con i Leoni d’Inghilterra, nel 1948.
LA “TRIADE” E l’attacco di bonipertiana memoria
Gli azzurri si ritrovavano quindi ad esser guidati da un tridente leggendario composto da Aldo Bardelli, giornalista sportivo; Roberto Copernico, dirigente Figc; e Ferruccio Novo, il presidente del Toro. La presenza di un numero così elevato di persone scatenò ovviamente il caos con Novo chiamato a prender le maggior parte delle decisioni tranne quella riguardante il viaggio. Considerata la paura di rivivere i terribili momenti di un anno prima, Bardelli decise di evitare una tratta aerea di circa 35 ore con tanto di scali preferendogli una traversata transoceanica in nave di ben quindici giorni.
Una mossa a dir poco sconsiderata per una formazione che doveva prepararsi per un torneo e che presentava un attacco di livello internazionale guidato da Giampiero Boniperti, ala della Juventus conosciuto anche come “Marisa” per via del suo aspetto curato, da Benito Lorenzi, centravanti dell’Inter soprannominato “Veleno” per le sue proverbiali risposte, e da Amadeo Amadei, più giovane calciatore ad andar a segno in Serie A a soli 15 anni e 280 giorni in Lucchese-Roma 5-1. Al loro fianco andavano segnalati Riccardo Carapallese, bomber del Torino e pupillo di Novo, così come Carlo Parola, centromediano bianconero noto per la rovesciata raffigurata sulla copertina dell’Album Panini; e Lucidio Sentimenti, chiamato a difendere la porta dopo essersi giocato a lungo il posto con il leggendario Valerio Bacigalupo.
LA CROCIERA E LA DISASTROSA PREPARAZIONE ATLETICA
L’epopea di questa squadra piena di talenti prese il via il 4 giugno 1950 dal porto di Napoli davanti a migliaia di persone pronti a spingere i propri beniamini verso il Brasile nell’infinito viaggio sulla motonave “Sises”, 16.000 tonnellate pronte ad ospitare non solo il “ritiro” dell’undici tricolore, ma anche di numerosi tifosi intenzionati a passare le settimane successive in una piacevole crociera sull’Oceano Atlantico. Per raccontare precisamente quanto accaduto in quei giorni è meglio lasciar spazio a Gianni Brera, ma soprattutto ad Angelo Rovelli, telecronista della Gazzetta dello Sport inviato direttamente nel paese verdeoro.
“La partenza della Sises era l’avvio di un paio di settimane micidiali, le cui conseguenze sarebbero esplose non appena giunti a destinazione. Certo, per i turisti che facevano le vacanze sulla Sises, la traversata era salutare con svaghi e riposi; ma per calciatori-atleti, non proprio in viaggio-premio, la situazione diventava problematica sul piano della preparazione: gli strumenti per realizzarla si presentavano del tutto aleatori. Gli stessi Bardelli, Berretti e il mite Biancone, che dirigevano le operazioni con l’ausilio di due sperimentati tecnici quali Ferrero e Sperone, dopo pochi giorni non nascondevano qualche perplessità. Di veri allenamenti neppure a parlarne. Al mattino gli Azzurri
venivano radunati sul ponte di prima e allenati con palloni leggeri che, talvolta, maligni colpi di vento facevano precipitare in mare. Istintivamente, come fossero collegiali, i giocatori si davano la baia accusando questo o quello di non saper trattare convenientemente la sfera”.
La storia di quella traversata, a dir poco, singolare
Una versione che è stata smentita qualche anno fa da “Fornaretto” Amadei il quale affermò come di palloni di cuoio letteralmente se non se ne videro se non “quelli medicinali per fare i pesi” raccontando di “due sedute fisiche al giorno e tattica” condite da “camminate sui ponti e tante carte. E’ impossibile non farsi però trascinare dal grazioso reportage di Rovelli che vide una svolta con lo scalo compiuto nelle Canarie da parte della nave battente bandiera italiana, un passaggio che consentì sì all’Italia di compiere finalmente un’amichevole, ma anche di lascias spazio a innumerevoli scherzi.
“Parve a tutti di tornare alla normalità quando l’8 giugno la Sises fece sosta a Las Palmas, dove la comitiva dopo lo sbarco fruì finalmente di un terreno di gioco per un allenamento
consistente. Il clima appariva sereno, persino si giustificavano le mattane di Lorenzi, Remondini e Cappello i quali — acquistati al porto di Las Palmas tre sombreros — se ne servivano per comiche parentesi durante le serate decisamente noiose che separavano le Canarie dall’arrivo a Santos. Era difficile del resto — oltre a qualche lettura, a qualche torneo improvvisato di ping-pong, di pallavolo o del gioco della piastrella — trovare qualche cosa di meglio per ammazzare il tempo. Ferrero e Sperone facevano il possibile per dare agli atleti un tono muscolare ma chiaramente con scarsi esiti. Intanto ciò che appariva evidente in tutti era la noia e in taluni il proposito di tornare in Italia, dopo i Mondiali, con il ‘maledetto’ aereo”.
L’arrivo in Brasile e quella festa di troppo
Scarichi dal viaggio e dagli impegni legati al campionato, l’avventura di Boniperti e compagni proseguì fra il serio e il faceto in un lussuoso albergo di San Paolo dove gli azzurri alloggiavano fra il diciannovesimo e il ventesimo piano in compagnia di ricchi turisti e persino di un corpo di ballo argentino che rendevano totalmente impossibile mantenere il clima di un serio ritiro. La dimostrazione arrivò proprio alla vigilia del match inaugurale con la Svezia come confermato da Rovelli.
“Ciò che rimane davvero incredibile è la decisione di rimanere in quell’albergo anche alla vigilia della partita con la Svezia, rifiutando l’invito di un ricco italiano, la cui fattoria a Trenembé avrebbe fatto al caso proprio in quel particolare momento. Dopo cinque giorni di ipotetico riposo, di insufficiente recupero, di allenamenti all’acqua di rose, la Nazionale dovette sorbirsi nella notte del 24 giugno la famosa festa di San Giovanni, esplosa in una fan tasmagoria di luci e di colori ma purtroppo anche di clamori: mortaretti, fuochi d’artificio, petardi a tener tutti desti. E un caldo terribile come colpo di grazia. Impreparazione, fiato corto, muscoli arrugginiti”.
L’ESORDIO IRIDATO E LA SCONFITTA CON LA SVEZIA
Arrivò quindi quel famoso 25 giugno 1950 dove l’Italia si ritrovò ad affrontare la Svezia, reduce dal titolo olimpico conquistato due anni prima a Londra. In quella squadra che non presentava alcun calciatore professionista, per cui vennero esclusi fra i quali i componenti magico tridente del Milan Gunnar Nordhal, Johan Gunnan Gren e Niels Liedholm a cui si aggiungevano Kjell Rosén, diretto a Torino, e Lennart Skoglund, pronto a sbarcare a Milano sponda Inter.
In quell’undici non mancava tuttavia il talento come quello di Hasse Jeppson, futuro attaccante dell’Atalanta divenuto poi celebre per il trasferimento record al Napoli, così come Sune Andersson, già promesso sposo della Roma insieme a Knut Nordhal e Stig Sundqvist. Quella Svezia infarciata di giocatori intenti a sbarcare nel Bel Paese fece particolarmente male alla formazione tricolore che, come da pronostico, trovò subito la via della rete di Carapellese, bravo a sfruttare la cavalcata sulla destra al settimo minuto di Cappello.
Gli italiani rimasero però ben presto sulle gambe e, patendo la mancata preparazione fisica, subirono prima il pareggio di Jeppsson al venticinquesimo e successivamente il raddoppio di Andersson al trentaquattresimo. Fra le colpe maggiori non vi era sicuramente la classe e l’estro, ben rappresentati da Boniperti e Ermes Muccinelli, spesso però fermi a iniziative personali; quanto piuttosto dalla mancanza di compattezza e dalle gravi mancanze difensive espresse da un Parola in apparente confusione, e da Sentimenti, non brillante su due delle tre reti.
Nelle mani dell’accortezza e della precisione svedese, l’undici tricolore subì il terzo gol al sessantanovesimo di Jeppsson trovando finalmente la sveglia e lanciandosi così in avanti accorciando le distanze e con Muccinelli. Troppo tardi per cogliere un vitale pareggio che, a fronte della sfortunata traversa di Carapellese all’ultimo minuto, non arrivò grazie anche alla calma degli scandinavi, mai realmente in difficoltà. “C’era in me qualcosa di indefinibile che non mi permetteva di giocare come avrei voluto: il mio fisico non rispondeva agli ordini del mio cervello”, commentò il mediano Carlo Annovazzi.
L’eliminazione e l’addio con vittoria sul paraguay
Le testimonianze dei protagonisti di quella trasferta
Lo scialbo pareggio per 1-1 fra Svezia e Paraguay fu la pietra tombale sulle speranze dell’Italia che fu letteralmente costretta a giocare l’ultimo match del girone con i sudamericani, già certa dell’eliminazione complice il passaggio al turno finale della Svezia, brava a sorprendere e chiudere al terzo posto. In quel match andato in scena all’Estádio do Pacaembu il 2 luglio 1950 gli azzurri apparvero completamente diversi dominando il gioco e andando in gol al dodicesimo con il solito Carapallese e al sessantatreesimo con Egidio Pandolfini. Il merito di quel risulto fu probabilmente frutto dell’inserimento delle cosiddette “riserve” così come della voglia di quest’ultime di mettersi in mostra, ciò che sicuramente fu chiaro a tutti è che le potenzialità di giocarsi almeno il podio c’erano tutte.
L’Italia della triade Novo, Bardelli e Copernico rientrò quindi mestamente in patria con l’amaro in bocca e la consapevolezza che, nonostante la scomparsa del Grande Torino, vi sarebbe stato il potenziale per portarsi a casa il terzo titolo mondiale consecutivo ed evitare ai brasiliani di vivere la tragedia del “Maracanazo”. Un rientro avvenuto rigorosamente in aereo, tranne per “Veleno” Lorenzi e Carapallese che scelsero nuovamente la via della nave finendo però sul mezzo sbagliato e raggiungendo il Bel Paese soltanto un mese dopo.
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