Se durante il mini-training camp che introduceva la stagione 2020/2021 dei New York Knicks vi siete trovati a storcere il naso e a dubitare delle dichiarazioni ottimistiche di molti dei membri della squadra, tranquilli, siete in buona compagnia. E non c’è motivo per sentirsi in colpa, adesso che la squadra della Grande Mela occupa con diritto uno dei posti-playoff della Eastern Conference. D’altronde questa franchigia e chi la guida dall’alto, il proprietario James Dolan, vantano anni e anni di programmazioni (nelle intenzioni) avvedute e accorte, inizialmente votate a una visione di medio-lungo periodo, puntualmente ridotti a palline di carta gettate nel cestino sull’onda di scelte scriteriate e contraddittorie.
Perché allora stavolta le cose sarebbero dovute andare diversamente?
A dicembre i Knicks si presentano ai nastri di partenza della stagione con un coach e un Presidente nuovi di zecca. L’ennesima ricostruzione della squadra si identifica nei volti di Tom Thibodeau e Leon Rose, storico agente sportivo alla prima esperienza a capo di una franchigia NBA. Entrambi, com’è ovvio che sia, seguendo le orme lasciate dai predecessori, si fanno promotori della Nuova Era, ma Rose sin da subito ben si guarda dall’esibire proclami buoni solo per i titoli sensazionalistici dei quotidiani newyorkesi. Chiede pazienza ai tifosi e propone una strategia “che possa essere da stimolo per vincere nel breve termine e sia sostenibile e di successo nel lungo periodo”.
A dire il vero, non che Phil Jackson avesse promesso la vittoria del titolo al suo arrivo nel 2014 (pur potendo contare su un Carmelo Anthony ancora al vertice), ma sui tre anni di Coach Zen dietro la scrivania meglio soprassedere. Insomma, il basso profilo è ben accetto ma se seguito da fatti concreti: i fan ne hanno viste troppe per cascarci di nuovo.
Rose si mette al lavoro e dopo aver composto lo staff tecnico e dirigenziale si concentra sulle mosse per rinforzare il roster. Come promesso, nessun colpo di testa in puro stile-Knicks; solo scelte votate alla continuità e alla coerenza. Quindi aggiunge tiratori a un attacco bisognoso di spaziature, non spreca le scelte al Draft in suo possesso e sceglie con giudizio i rookies su cui puntare. Addirittura viene quasi tacciato di eccessiva prudenza quando, sostanzialmente, New York rifiuta di offrire un contratto da superstar a Gordon Hayward e di imbastire una trade per Russell Westbrook, in uscita da Houston.
Non siamo di fronte a una rivoluzione completa perché alcuni dei giocatori più criticati della scorsa stagione, Randle e Payton, vengono confermati non senza il timore (diffuso fra gli osservatori) che possano rivelarsi un ostacolo per lo sviluppo dei prospetti più giovani e talentuosi al servizio di coach Thibodeau.
In realtà, osservando lo stato delle cose a tre mesi di distanza, tra le ragioni che permettono di spiegare il sorprendente inizio dei Knicks c’è proprio uno di quei due nomi, testa e spalle sopra gli altri: Julius Randle, attualmente il leader tecnico ed emotivo della squadra, nonché un credibilissimo All-Star. Per capire come abbia fatto l’ex Kentucky a passare da colpevole numero uno delle disgrazie recenti di New York a uomo della provvidenza occorre fare un passo indietro.
il duro impatto con new york
Il nativo di Dallas sbarca nella Grande Mela da free agent nell’estate 2019 dopo aver declinato l’opzione sul secondo anno di contratto coi New Orleans Pelicans. Randle è reduce infatti dalla sua miglior stagione in carriera in Louisiana, chiusa sopra i 20 punti di media e con un ruolo di primo piano, quella che negli States chiamano breakout season. E sceglie di monetizzare. New York gli offre 63 milioni di dollari per tre anni nella convinzione che possa essere anche per i Knicks ciò che è stato per NOLA: un lungo capace di mettere palla per terra, attaccare il ferro e vestire i panni del go-to-guy.
Qualcosa però non andrà secondo i piani.
I Knicks di David Fizdale sono costruiti senza alcuna logica, pieni zeppi di accentratori con la palla in mano in attacco, scarsi tiratori e tutt’altro che buoni difensori. Un contesto diverso da quello a cui Randle si era abituato nel sistema di Alvin Gentry a New Orleans, in cui la presenza di adeguate spaziature offensive e grandi giocatori (Anthony Davis, Jrue Holiday, Nikola Mirotic) gli permetteva di calarsi nel ruolo di point-forward ed esplorare in modo efficace il suo gioco nel pitturato dal gomito o dalla punta.
Ma con le vie a canestro intasate dai compagni mal spaziati, e dovendo fare da spettatore per gli isolamenti altrui, riciclandosi come tiratore da tre (solo il 27% su 3.6 tentativi nel suo primo anno a NY), Randle finirà per far emergere tutti i suoi più grandi limiti ed essere un peso a tutti gli effetti. Dei suoi attacchi 1 contro 5 a testa bassa con conseguenti tiri al ferro o palle perse la stampa di New York ci ha scritto fiumi di parole e su YouTube si trovano addirittura dei low-lights dedicati alquanto impietosi.
All’ex prima scelta dei Lakers bastano pochi mesi in maglia blu-arancio per dilapidare la credibilità accumulata nell’anno positivo ai Pelicans e vedersi appiccicare nuovamente l’etichetta di giocatore buono per accumulare numeri e statistiche, ma dannoso per le sorti della squadra. Quando, l’11 marzo 2020, la stagione viene interrotta a causa del COVID, Randle si trova a vivere il punto più basso della carriera, con il dito di una città intera puntato addosso che lo considera il principale responsabile dell’ennesimo tracollo-Knicks.
from zero to hero
Sorprendentemente, dopo mesi passati al centro di rumors e discussioni attorno al suo futuro, che sembrava scritto fosse lontano da New York, Randle è parte del gruppo assemblato dalla coppia Rose-Thibodeau. Ed è durante il training camp che l’ex coach dei Bulls gli affida le chiavi della squadra. Il numero 30 si mostra motivatissimo e in grande forma fisica, dopo aver perso alcuni chili di troppo e aver lavorato intensamente nei mesi precedenti. Quello che si presenta al via della stagione è un Julius Randle nuovo.
Anche perché è nuova, e finalmente coerente, la struttura di squadra attorno a lui. La presenza di tiratori sul perimetro e di un lungo verticale come Robinson cambia il paesaggio tattico di fronte a Randle, che si cala nel ruolo di playmaker occulto di New York e diventa un’arma in attacco in varie situazioni.
Dalle sue mani nascono punti per gli altri ma anche per sé stesso, grazie a situazioni cucite appositamente su di lui. Se è vero che spesso attacca in isolamento e dal gomito (ricordando sinistramente le tendenze dell’anno passato), va detto che Randle è molto più coscienzioso nel saper leggere la difesa e attaccare un mismatch favorevole, o sfruttare la minaccia del tiro da tre dei compagni per puntare al ferro.
In più, sta segnando triple come mai gli era successo in carriera (40.7% su 4.5 tentativi) e aver aggiunto questo fondamentale apre scenari inaspettati, che si possono anche tradurre in prestazioni monstre come quella contro Atlanta del 15 febbraio scorso: 44 punti con 7 triple (career-high dalla lunga distanza).
“Thibs ha fatto un gran lavoro nel mostrarci il suo sistema e il modo in cui vogliamo giocare dal primo giorno di training camp,” ha spiegato Randle. “Abbiamo le idee chiare, grandi spaziature e facciamo giocate semplici, le giocate giuste per tutti in maniera altruista”.
Se i New York Knicks navigano attorno al 50% di vittorie, e cullano addirittura il sogno playoff, lo devono in gran parte alla rinascita, tutt’altro che scontata e banale viste le premesse, di un giocatore sicuramente peculiare nella sua pallacanestro, ma al momento decisamente efficace, in entrambe le metà campo. Non va infatti dimenticato che Randle si è reso presentabile anche in difesa, suo noto tallone d’Achille, mettendosi al servizio di un sistema che gira a meraviglia sotto il controllo delle operazioni di coach Thibodeau (i Knicks sono tra le 5 migliori difese NBA per Defensive Rating).
La prima stagione a New Orleans aveva permesso a Julius Randle di fare il primo vero step di crescita dal suo ingresso nella Lega. Ma in quella in corso, successiva a un anno difficoltoso e che poteva assomigliare a un passo indietro, il numero 30 di New York sta spingendo l’asticella ancora più in alto. Alla stessa altezza di chi gioca l’All-Star Game. Un palcoscenico che, è ormai ufficiale, arriverà a calcare per la prima volta. Con grande merito.
Immagine in evidenza: ©️ via Twitter @sny_knicks
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