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L’interViSta – Il tennis secondo Paolo Bertolucci, il braccio d’oro d’Italia

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Ospite della rubrica “L’interViSta”, Paolo Bertolucci. Ex tennista italiano, tra gli anni Settanta e Ottanta, da tutti conosciuto con il soprannome di Braccio d’Oro, per via dei suoi colpi spettacolari ed efficaci allo stesso tempo. Amico inseparabile di Adriano Panatta, Bertolucci è stato uno dei grandi protagonisti del trionfo dell’Italia in Coppa Davis nel 1976 e può vantare ben 6 titoli in singolare e 12 in doppio. Tutti questi risultati gli hanno permesso di raggiungere la posizione n.12 in singolare e n. 27 in doppio della classifica mondiale, chiudendo la carriera da professionista nel 1983. Ora ricopre il ruolo di commentatore per Sky Sport e collabora per la Gazzetta dello Sport.

Nel corso dell’intervista abbiamo avuto modo di parlare di tennis a 360 gradi: dalle sue esperienze personali in questo sport agli aneddoti del trionfo in Davis, passando per le differenze tra la sua epoca e quella odierna, fino ad arrivare a commentare la più stretta attualità legata al tennis, italiano e non.

Come nasce la sua passione per il tennis e che cosa l’attrae maggiormente di questo sport? Sognava di fare il tennista professionista fin da bambino?

Io sono nato in un circolo tennis a Forte dei Marmi e mio padre era maestro di tennis, potremmo dire che la mia carriera fosse segnata fin dall’inizio. Non a caso i primi giocattoli che ho avuto sono stati una racchetta da tennis e una pallina. Naturalmente ho iniziato a giocare per divertirmi da bambino, palleggiando contro il muro e in giardino a casa. Poi a dodici/tredici anni mi vide il presidente della Virtus Bologna, mi portò a Bologna e passai circa sette/otto anni al circolo di quella città. Iniziai a fare tornei, la Federazione mi vide e mi portò ad un college a Formia all’età di 14/15 anni insieme a Panatta e altri. In questa struttura, la mattina andavamo a scuola, mentre al pomeriggio ci allenavamo e pian piano iniziammo a disputare vari tornei internazionali. Fui campione italiano Under-14, Under-16 e Under-18 e da lì partì la mia carriera.

Dovesse scegliere le partite più significative della sua carriera tennistica, quali sceglierebbe e ricorda con più piacere?

In primis sicuramente il doppio con Adriano Panatta in Cile della finale di Coppa Davis del 1976, quello fu la realizzazione di un sogno con una squadra che nacque 10 anni prima. Eravamo tutti ragazzi cresciuti insieme che, sotto la guida di Mario Belardinelli, arrivammo all’apice. Un’altra partita che ricordo con grande piacere è il successo in singolare nella finale ad Amburgo, torneo ai tempi di altissimo livello. Infine, per completare le tappe più importanti della mia carriera, citerei un’altra partita di doppio in finale, stavolta a Montecarlo.

Finale di Coppa Davis 1976, da sinistra a destra Adriano Panatta, Tonino Zugarelli, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e il capitano Nicola Pietrangeli (©tenniscircus.com)

Sulla Coppa Davis 1976, ci può raccontare l’emozione della finale in Cile? Cosa pensava in quei momenti fuori e dentro il campo da gioco? Ha mai ritrovato un’atmosfera del genere in altri tornei in giro per il mondo?

La Coppa Davis è un mondo a parte, rispetto a qualsiasi altro torneo al mondo. Il tennis è uno sport individuale, giochi per te e se vinci o perdi sono affari tuoi, mentre in Davis non è così. Lì ti senti sulle spalle il peso della maglia azzurra, rappresenti il tuo paese e la nazione in cui sei nato. Come detto prima, nel 1976 noi eravamo un gruppo di ragazzi cresciuti tennisticamente  insieme, posso dire fossimo una squadra nel vero senso del termine. Non a caso, oltre a quella in Cile, giocammo altre finali e match importanti. Inoltre, in quegli anni conoscemmo diverse atmosfere delicate, per esempio l’apartheid in Sudafrica, il regime di destra in Chile, quello di sinistra in Cecoslovacchia. Possiamo dire di averne provate un po’ tutte, di aver sperimentato esperienze tennistiche e di vita che ci fecero crescere davvero molto.

Rimanendo su quella finale  in Cile e sulla ormai celebre maglia rossa indossata durante il match di doppio, per dare un segnale e protestare contro le repressioni del dittatore Pinochet. Cosa le disse Adriano Panatta? Come la convinse? Ha mai avuto timore di fare quel gesto?

A quei tempi avevamo la stessa azienda per le divise e le magliette, con i vari colori. La sera prima della finale Adriano venne in camera e mi chiese se avessi portato una maglia rossa, io gli dissi di no perché non l’avevamo mai usata. Utilizzavamo sempre maglie azzurre, bianche, verdi, ma rosse mai. Lui però mi disse di voler scendere in campo con una maglietta rossa e io mi sorpresi, gli risposi: “Ma sei matto, proprio qui in Cile vuoi usare quella rossa, non mi sembra il caso”.  Lui insistette e mi disse come noi dovessimo lanciare un segnale importante, così, pur di non sentirlo più parlare, lo accontentai. Anche perché quel doppio era il match della vita, sarei sceso in campo in qualsiasi maniera. Così indossammo quella maglietta rossa ma, sul vantaggio di due set a uno, negli spogliatoi rimettemmo quella azzurra e conquistammo la coppa.

Paolo Bertolucci e Adriano Panatta con la celebre maglia rossa, durante il doppio della finale di Coppa Davis 1976 (© Un.dici, medium)

Chi è Adriano Panatta per lei? Com’era il vostro rapporto da giocatori?

Panatta è un fratello, abbiamo passato una vita assieme e ci conosciamo da quando avevamo 11 anni. Per tre anni a Formia abbiamo condiviso la camera, poi a Roma abbiamo vissuto assieme in appartamento e ci siamo fatti da testimoni di nozze a vicenda. Adesso ci vediamo e ci sentiamo molto meno rispetto al passato, però ogni volta che ci incontriamo o parliamo è sempre molto divertente. Potrei paragonare il nostro rapporto ad un matrimonio, con i normali alti e bassi e la collaborazione che serve per convivere pacificamente. È capitato di tutto tra noi, abbiamo scherzato, ci siamo divertiti, è capitato di picchiarci o di non parlarci per una settimana pur stando in camera assieme.

Coppa Davis 1976, a sinistra Paolo Bertolucci, al centro Nicola Pietrangeli e la coppa, a destra Adriano Panatta (©Un.dici, medium)

Concentrandoci ora sul finale della sua carriera, come ha capito fosse il momento di smettere con il tennis? Le manca la vita da tennista?

Lo si capisce quando i dolori incominciano ad avere il sopravvento e se passi più tempo con i dottori che su un campo d’allenamento. Ma allo stesso tempo ti rendi conto che la mattina impieghi parecchio tempo per alzarti, che diventa un peso preparare la borsa con dentro le racchette, i vestiti ecc. Quando tutte queste cose non le fai più sorridendo, vuol dire che c’è qualcosa che non va e devi incominciare a ragionare sul ritiro. Io poi dico che quando hai cantato alla Scala fai fatica ad andare in un teatro di periferia, è diverso l’ambiente e tutto ciò che sta intorno. Ciò non vuole essere presunzione, ma è obiettivamente la verità.


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Ora lei ricopre il ruolo di opinionista a Sky Sport, come è nata questa possibilità e quanto le piace questo mestiere?

Capitò tutto per caso, iniziai a Stream trent’anni fa su proposta del direttore dell’emittente dell’epoca. Io non avevo mai fatto nulla di tutto ciò, però feci un provino, che andò bene, e fui assunto. Successivamente, Stream prelevò Tele Più, poi nacque Sky e mi spostai ad abitare a Milano. Inizialmente le voci del tennis erano Clerici e Tommasi, poi pian piano ho scalato le gerarchie e ora sono la prima voce. Devo dire che mi trovo molto bene e questo ruolo mi permette di rimanere a contatto con l’ambiente che ho sempre frequentato, sennò non saprei cos’altro fare nella vita. Inoltre, scrivo anche per la Gazzetta dello Sport, quindi le due cose mi rendono felice.

Realizzando un parallelismo tra la sua epoca e quella attuale. Le piace il tennis odierno? Potrebbe indicare una cosa che invidia al tennis moderno e una che invece c’era ai suoi tempi ma manca oggi?

Come tutti gli sport, il tennis è profondamente cambiato, in primis gli attrezzi e l’organizzazione a livello mondiale. Ora si gioca 12 mesi all’anno, mentre in passato c’erano delle pause, inoltre ogni giocatore oggi possiede un proprio team specializzato e c’è molta meno goliardia. Alla mia epoca si girava da soli e negli spogliatoi si scherzava tantissimo, era un po’ come quando a scuola non c’è il professore in aula. Adesso è tutto più serio e controllato, negli spogliatoi c’è silenzio assoluto, ci si saluta appena e si dicono due parole sottovoce per non disturbare. Naturalmente ci sono molti più soldi e guadagni, però rispetto a prima i giocatori moderni si divertono sicuramente meno. Dal punto di vista tecnico, invece, il tennis è diventato più violento e fisico, ma un po’ come tanti altri sport. Tutto ciò fa parte della normale evoluzione del gioco, va accettato e dopo un po’ ci si abitua. Naturalmente ci sono sempre le persone di una certa età, che fanno più fatica a farlo. Io stesso quando vedo giocatori tatuati mi sorprendo, perché ai miei tempi non esistevano. Però penso anche che ai miei tempi c’erano i capelloni, i pantaloni a zampa di elefante e le camicie a fiori, che a mio padre non piacevano. È tutto frutto dell’evoluzione del mondo e dell’uomo.

Arrivando ai dominatori del tennis recente, chi è il suo preferito tra Djokovic, Nadal e Federer?

Stilisticamente e come modo di interpretare il gioco sicuramente Federer, perché è quello che si avvicina di più alla maniera di intendere il tennis della mia epoca. Detto ciò, non penso sia possibile e giusto affermare chi sia il più forte tra i tre, anche perché ognuno ha le sue preferenze.

Una domanda ora sul momento d’oro del tennis italiano al maschile. Come mai, secondo lei, c’è stata questa grande esplosione di giocatori ad alto livello e a cosa è dovuta?

È tutto un insieme di cose, che hanno contribuito a far crescere tutto il movimento maschile italiano. In primis è una questione di cicli, ci sono periodi favorevoli e contrari come in tutti gli sport. Negli anni scorsi era il tennis al femminile a trionfare, mentre oggi sta accadendo l’esatto contrario. In secondo luogo, il merito va dato a team specializzati sorti in questi anni nel nostro paese, che hanno saputo lavorare e ricavare il meglio da giocatori con ottime qualità tecniche/fisiche. Inoltre è stato importante aver capito e accettato che dovevamo essere meno provinciali, uscire dal nostro giardino e aprirci al mondo. Il tennis è uno sport che non si gioca nella propria regione o città, ma in giro per il mondo, sempre con la valigia in mano.

Jannik Sinner e Lorenzo Musetti al termine di un incontro al Foro Italico di Roma nel 2019            (© Giampiero Sposito)

Rimanendo sempre sul tennis italiano, cosa pensa di Jannik Sinner e cosa le piace di più del ragazzo altoatesino? È azzardato dire come sia il talento più grande mai avuto nella storia del tennis italiano?

Talento no, perché ci sono stati giocatori più talentuosi nella storia tennistica italiana. Certamente in Italia non c’è mai stato nessuno forte come lui alla sua età, su questo credo non ci siano dubbi. Sinner ha tutto, qualità, mezzi, una base molto importante, una grande testa, è appassionato di tennis e quindi, se come ci auguriamo non ci saranno intoppi fisici, è candidato ad essere uno dei migliori nei prossimi anni a livello mondiale. A livello tecnico mi colpisce la sua bravura con i colpi a rimbalzo e la velocità che imprime alla pallina, poi certamente dovrà aumentare molto il suo bagaglio tecnico e migliorare su molti aspetti. Però tutto ciò è normale, non dimentichiamoci che ha solo 19 anni e il futuro non può che essere roseo per lui.

Tra gli altri tennisti emergenti a livello mondiale, secondo lei chi arriverà per primo a dominare il circuito al maschile nei prossimi anni?

Attualmente quelli più vicini a questo obbiettivo sono Tsisipas, Medvedev, Zverev, giocatori ancora giovanissimi che hanno già vinto e hanno ampi margini di miglioramento. Mi auguro poi che tra due anni, insieme a loro, ci siano anche Sinner, Musetti e non dimentichiamoci Berrettini. Se riesce a risolvere i problemi fisici anche lui ci può stare benissimo, non è diventato numero otto al mondo per caso.

Uno sguardo ora al futuro. E’ realistico pensare di avere un italiano alle ATP Finals di Torino? Poi, l’Italia potrà tornare a conquistare la Coppa Davis, dopo la vostra del 1976? A proposito di ciò, cosa pensa del nuovo format della competizione?

Questa stagione si spera, però obiettivamente è molto complicato. Ad oggi l’unico che sembra avere possibilità è Sinner, però è ancora presto per fare bilanci e previsioni. Comunque, non dovesse farcela questa stagione, speriamo possa riuscirci la prossima. Sarebbe il massimo avere degli italiani alle ATP Finals in casa a Torino.

Sulla Coppa Davis, il format attuale, devo essere sincero, fa schifo, o meglio è un’altra cosa che non c’entra nulla con la competizione. La Coppa Davis è resistita per 130 anni, ma ora è morta. Capisco poi che il mondo si evolve e la vecchia formula non andava più bene, quindi ci sta anche il cambio. Però allora non chiamiamola più Coppa Davis, mettiamogli tutti i nomi possibili ma non quello. Due singolari e un doppio tutti insieme, con sede unica e in un solo periodo dell’anno, cosa c’entra con la Davis che si gioca tre su cinque, su tre giorni e in sedi diverse? Quello che mi dispiace di più è che nazioni minori non potranno mai vedere i propri giocatori dal vivo in casa, non essendo sedi di tornei del circuito maggiore. Per esempio un polacco, piuttosto che un norvegese, non potranno mai ammirare i propri tennisti da vicino. Da questo punto di vista, per il marketing del tennis è un errore clamoroso, seppur capisco come ci siano esigenze di rinfrescare e innovare. A me va benissimo, a patto che si cambi nome però.

Per quanto riguarda l’Italia, è tra le quattro nazioni più forti al mondo, quindi può puntare in questi anni alla vittoria. Credo che il nostro paese possa essere davvero competitivo e, come successe alla mia epoca, può capitare una volta di vincere, di arrivare secondi o terzi. Il livello però dell’Italia è alto e rimarrà tale per moltissimi anni. Per le altre nazioni ci metterei la Spagna, la Francia, la Russia, le nazioni forti sono quattro o cinque. Certo se poi in un paese nasce il Djokovic della situazione, che porta sempre un punto e mezzo a casa, allora qualcosa potrebbe cambiare.

Tutta la redazione ringrazia Paolo Bertolucci per la disponibilità e la gentilezza.

Simone Caravano
Simone Caravano 22 anni, laureato in Scienze delle Comunicazioni presso l'università degli studi di Pavia. Attualmente studente della laurea magistrale in giornalismo dell'università di Genova. Credo che lo sport sia un mondo tutto da scoprire e da raccontare, perché offre storie uniche ed emozionanti. Allora quale modo migliore esiste per fare ciò, se non attraverso la scrittura.

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