“International VS” riprende i più bei pezzi pubblicati sulle testate estere al fine di allargare gli orrizzonti e per offrire un punto di vista più completo, oltre a nuovi spunti di riflessione.
“A volte, ai giocatori di tennis accade qualcosa per cui non riescono più a mandare la palla dall’altro lato della rete; niente va come dovrebbe e, semplicemente, non ci sei con la testa. Durante una di queste settimane, pensavo: ‘Se mi ritiro domani, è tutto a posto’ ”, dice Zina Garrison, ridendo. Parlando a trent’anni di distanza dal suo glorioso Wimbledon del 1990, ciò che le viene subito in mente è la settimana precedente, quando non sembrava possibile immaginarlo.
Invece di ritirarsi, giocò il torneo della vita. Ai quarti di finale affrontò Monica Seles, che veniva da una striscia di 32 vittorie di fila, ed al turno successivo trovò la campionessa in carica, Steffi Graf, che veniva da 13 noiosissime finali di Slam consecutive. Entrambi i record caddero.
Garrison annullò un match point della Seles con un vincente di dritto, prima di conquistare 10 degli ultimi 12 punti e vincere 9-7 al terzo set; poi, grazie al suo aggressivo colpo a effetto, vinse in tre set contro la Graf. È stata l’unica giocatrice a battere entrambe le ragazze inarrestabili degli anni ’90 nello stesso torneo.
Quando il mondo aprì gli occhi al cospetto della prima donna afroamericana in una finale di Wimbledon dai tempi di Althea Gibson (1958), il tennis fu solo una parte del clamore del suo successo. Un esempio: la Garrison aveva 26 anni ed era stata una top player per 8 anni. Eppure, fu l’unica senza uno sponsor tecnico per gran parte della carriera.
A Wimbledon, Martina Navratilova le aveva regalato gli indumenti che la Nike le forniva, prima che Garrison firmasse un contratto con la Reebok proprio la notte prima della finale, in cui la stessa Navratilova avrebbe messo fine al suo torneo battendola 6-4, 6-1. C’era voluta una finale di Wimbledon, per lei, per guadagnare un tipo di contratto che giocatrici meno forti ottenevano immediatamente.
“Per cinque anni, anche quando sono arrivata tra le prime quattro del mondo, non avevo un contratto”, dice Garrison. “Ero perfettamente cosciente di cosa stesse succedendo e mi veniva sempre detto: ‘Se riesci ad arrivare a questa posizione nel ranking, avrai un contratto. Se raggiungi questo [turno]’, capisci? C’erano ragazze bianche dietro di me, che guadagnavano molti più soldi e per posizione in classifica e bravura non arrivavano al mio livello”.
Essere una giocatrice nera negli anni ’80 voleva dire questo ed altro. Per la Garrison significava essere descritta come la ‘giocatrice afro-americana’, piuttosto che una delle tante Americane del circuito. Significava che gli agenti avrebbero argomentato che la mancanza di contratti veniva dal suo ‘non avere il giusto look’.
Coco Gauff ha conosciuto soltanto un mondo del tennis dominato da due atlete di colore e così ne parla francamente, ma allora significava autocensurarsi per paura di attirare troppa attenzione. Sin da giovane, alla Garrison fu insegnato dal suo allenatore, John Wilkerson, di lasciar parlare la racchetta: “Non possiamo concentrarci su cosa ci verrà dato o non dato,” dice. “Tutto ciò che possiamo fare è restare là per [abbastanza tempo], in modo che non possa essere negato”.
E il suo successo fu innegabile. Vinse una medaglia d’oro in doppio con Pam Shriver ed un bronzo in singolo alle Olimpiadi del 1988 a Seoul. Concluse la sua carriera con 14 titoli in singolo, 587 vittorie e la particolarità di aver battuto tutte le leggende del suo tempo negli incontri di slam. In doppio raggiunse due finali dell’Australian Open e vinse tre titoli slam in doppio misto.
Tuttavia, il rapporto di Garrison col suo sport è sempre stato instabile. La pressione per essere costantemente paragonata alla Gibson e il trauma di aver perso sua madre furono opprimenti. Dai 19 ai 28 anni soffrì di bulimia e ci sarebbe voluta la psicoterapia, più tardi nella sua carriera, per risolvere questi problemi. Ciononostante, in qualche modo, sul campo è sempre stata in grado di costruire una carriera esemplare.
“Davvero non so come,” ci dice. “Se mi guardo indietro, non ne ho idea. Ma mi sono anche guardata indietro pensando ad alcuni match che avrei dovuto vincere e invece non avevo le energie per vincerli”.
“Adesso posso dire che, probabilmente, era perché mi abbuffavo e vomitavo. Più tardi ho anche scoperto che questo fa sviluppare uno scompenso chimico… per cui convivo ancora costantemente con la disidratazione e devo starci attenta.”
L’uccisione di George Floyd e la diffusa campagna che ne è seguita ha dato alla Garrison motivo per pensare profondamente alla propria esperienza. Nelle ultime settimane la USTA (United States Tennis Association) è stata criticata aspramente dall’ex giocatrice Leslie Allen per la sua storia. Garrison ha avuto una causa ben reclamizzata per discriminazione razziale, risolta con la USTA nel 2009, in cui aveva sostenuto di essere stata pagata, come capitano per la Fed Cup, meno dell’allenatore della Coppa Davis, Patrick McEnroe, e anche di Mary Joe Fernández, che le era succeduta come capitano per la Fed Cup.
“Al tempo mi fu detto: ‘Non succederà davvero’. Ma nessuno è davvero stato dalla mia parte. Tutti mi raccontavano storie, in disparte, ma nessuno era pronto a venire in mio soccorso. Soltanto due persone, a quel tempo, furono disposte a farlo in maniera ufficiale, e sono state Billie Jean King e Venus Williams”.
“È stata dura per me… la morale della favola è che non ero pazza. Le cose sono migliorate, ma a volte le persone si fanno un’idea sbagliata perché ci sono un paio di top player di colore e allora dicono: ‘Beh, non è così male, guarda Venus e Serena’. Solo per un paio di giocatrici sembra tutto risolto”.
Durante il lockdown, Garrison ha condotto il suo show ‘Game Set Chat’ con l’ex giocatrice Chanda Rubin, intervistando figure del calibro di Billie Jean King e Frances Tiafoe. Durante una discussione sulle proteste in tutto il Paese, Garrison ha segnalato sia la necessità, per gli atleti che intendono dire la propria, di istruirsi, sia i benefici della rabbia vista nelle proteste che si sono diffuse rapidamente negli Stati Uniti e nel mondo.
“Quando dico di non restare in pace, non intendo dire che il mondo deve essere distrutto, ma voglio dire che dobbiamo mantenere alta la pressione. Per esempio, ci fu il boicottaggio dei bus a Montgomery [dopo l’arresto di Rosa Parks nel 1955]. Molte persone non comprendono che ci volle un anno o più. Non successe da un giorno all’altro. Dobbiamo mantenere alta la pressione perché ciò che alcune persone vogliono che facciamo è cominciare a dimenticarcene, così che loro possano tornare ad una certa normalità.”
Il tennis è stato un punto chiave della vita di Garrison. Da 28 anni gestisce un’accademia a Houston, dove aiuta giovani giocatrici, in particolare appartenenti a minoranze etniche, a fare i primi passi nello sport.
Nel 2017 la sua vita è stata sconvolta dall’uragano Harvey, quando riuscì a scappare dalla sua casa devastata soltanto con la sua medaglia olimpica e poco più. Non si era resa conto di quanto fosse stata toccata dalla cosa finché continuava ad anteporre le sue allieve al proprio benessere.
“Una delle mie cugine, che è una psicologa, mi disse: ‘Zina, tu hai uno stress post traumatico’. Ed io: ‘No, no, no’. Seguii il suo consiglio e finalmente iniziai ad ammetterlo: ‘Wow, ho appena perso tutto. Ho ancora la mia vita ma, per poterla rimettere a posto, devo prima mettere a posto me stessa’.
“Il mio primo pensiero dopo l’uragano fu: ‘Prendiamo delle reti e portiamole alle ragazze al rifugio, così almeno possono giocare’. È ciò che feci. Una delle mie nipoti stava piangendo, diceva: ‘Zia Zina, stai aiutando tutte quelle persone ed hai appena perso tutto’. È stato lì che ho pensato: ‘Wow, OK’ ”.
È giusto che si concentri di più su se stessa in questi giorni, ha già aiutato abbastanza. Oggi, quando Gauff e Naomi Osaka parlano dal profondo del cuore, lo fanno basandosi sull’esempio di giocatrici come Gibson, Allen, Lori McNeil, Rubin, le sorelle Williams e Garrison. Giocatrici che sono state abbastanza forti da buttare giù le barriere anche quando non sembrava possibile.
Traduzione di Marco Baldassarre
Articolo originale di Tumaini Carayol
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