Sette vincitori diversi di almeno un gran premio, primi tre della classifica piloti di tre scuderie diverse, mondiale costruttori aperto fino all’ultima gara, duelli mozzafiato e continui stravolgimenti dei valori in pista. Considerando questi aspetti, il mondiale di Formula 1 finito due domeniche fa ad Abu Dhabi si candida ad essere ricordato come uno dei più entusiasmanti ed aperti degli ultimi anni. Ma è stato davvero così?
Indubbiamente, neanche il più ottimista degli appassionati a febbraio avrebbe immaginato di assistere una stagione simile. Ai nastri di partenza la RedBull sembrava essere destinata a continuare il suo regno solitario con una velocità di crociera, con una superiorità tecnica che appariva inavvicinabile ai rivali: la Ferrari era alle prese con la rivoluzione apportata da Frédéric Vasseur che puntava, nella prima vettura interamente progettata dalla sua gestione, a una stagione migliore del grigio 2023, mentre McLaren e Mercedes si erano poste l’obiettivo di cercare di dare fastidio in qualche gara e le altre scuderie non ambivano ad altro che a ottenere quanti più punti nel sottile equilibrio del centro classifica. Se fino a Shanghai la pista ha rispettato queste previsioni, con quattro vittorie di Max Verstappen di cui tre doppiette (intervallate solo dallo sporadico 1-2 della Ferrari in Australia, causata dal ritiro di SuperMax), da Miami siamo stati catapultati in un campionato diverso. La RedBull è sembrata improvvisamente in confusione, sia sotto il punto di vista tecnico sia sotto quello gestionale (anche a causa del caso Horner), e si ha avuto un nuovo improvviso cambio di gerarchie, in cui in ogni domenica, a seconda degli aggiornamenti apportati e della familiarità con la pista, la scuderia da battere cambiava.
Se fino a fine luglio la McLaren di Lando Norris e Oscar Piastri è parsa nettamente la macchina più completa, con Verstappen chiamato a limitare i danni cercando di ottenere i migliori piazzamenti possibili, in seguito alla pausa estiva la Rossa ha ritrovato uno smalto che si temeva perduto ed è arrivata a giocarsi fino all’ultima gara il mondiale costruttori, poi meritatamente vinto dalla scuderia Papaya. Prestazioni positive del tutto inusuali nelle seconde metà di campionato degli anni scorsi: quest’anno la scuderia di Maranello ha vinto due gare dopo il mese di ottobre, tante quante ne aveva vinte dal 2013 al 2023, con Sebastian Vettel in Brasile nel 2017 e con Kimi Raikkonen ad Austin nel 2018.
Tuttavia, alla luce delle citate difficoltà della RedBull e della grande forma della McLaren, da semplici appassionati amanti dello spettacolo è inevitabile avere un senso di amarezza per l’andamento del campionato piloti, in cui Norris non è mai davvero riuscito a mettere seriamente in discussione il quarto iride di Max: il minimo distacco tra Verstappen e Norris è stato di addirittura 47 punti dopo il GP del Messico, prima che l’inglese gettasse definitivamente la spugna a San Paolo. L’impressione è che, soprattutto nelle prime gare in cui è diventata la macchina migliore, la McLaren non sia stata ancora strutturalmente pronta ad affrontare un animale da gara come Max Verstappen. Mai come in questo Mondiale l’olandese ha dimostrato infatti di essere un pilota generazionale ed incredibilmente solido, capace di sopperire con il suo talento alle criticità della vettura e riuscendo praticamente sempre ad ottenere il miglior risultato possibile. Alla luce della classifica finale pesano come macigni i punti persi dalla McLaren e da Norris per una strategia non brillante (Spagna, Canada e Gran Bretagna su tutte), per errori del pilota (Belgio, Austria e le qualifiche a Baku) o per una gestione interna del team che non ha privilegiato la corsa al titolo dell’inglese (la vittoria consegnata a Piastri in Ungheria). Per giocarsi il campionato piloti alla scuderia di Woking è evidentemente mancata quella malizia che si impara solo lottando per le posizioni importanti e che non era ancora parte del loro bagaglio, dal momento che solo un anno e mezzo fa a Jeddah le due McLaren erano nettamente le peggiori macchine del circus, a grande distacco dagli altri nel gruppo.
Reduci da due campionati dominati da Verstappen e dalla RedBull (prima dell’inizio della stagione l’olandese aveva vinto 29 delle ultime 33 gare), avere sette vincitori di quattro scuderie diverse ha portato sicuramente una ventata d’aria fresca e ha rappresentato una prova della grande competitività generale che ha caratterizzato questo mondiale. Aggiornamenti sbagliati o incredibilmente azzeccati hanno portato scuderie a precipitare in classifica (Aston Martin, Ferrari durante le gare estive) o a ritrovare all’improvviso ottime prestazioni (Alpine, Haas). Per quanto il continuo cambio di valori abbia permesso di aumentare il livello di imprevedibilità dei weekend di gara, tuttavia questo non ha sempre rappresentato un segnale confortante. Molto spesso, infatti, le singole vetture sono riuscite ad ottenere la giusta finestra di funzionamento solo in condizioni eccessivamente specifiche, come la Mercedes in caso di pista fredda, anche e soprattutto a causa dell’enorme difficoltà di prevedere il comportamento degli pneumatici e del poco tempo effettivo per testare le modifiche apportate. Considerando che le scuderie non hanno avuto a disposizione test ufficiali e che le poche sessioni di prove libere in sei occasioni sono state sostituite dalle discutibili gare sprint, è verosimile che questa dinamica sia stata una delle conseguenze della spettacolarizzazione a tutti i costi voluta da Liberty Media: vanno lette in questo senso anche alcune decisioni quantomeno particolari prese dai commissari di gara, che sono spesso sembrati inadeguati per un ruolo così delicato.
Nonostante queste criticità la Formula 1 sta indubbiamente vivendo un momento di grande popolarità, al punto che non è utopistico immaginare un 2025 davvero memorabile. Come spesso accade al termine di una generazione di vetture, tutto fa pensare che il prossimo anno gli ingegneri arriveranno a una comprensione massima delle specifiche tecniche del regolamento, permettendo così di avere un grande equilibrio fra le dieci scuderie in pista: nel caso in cui McLaren e Ferrari sappiano dare continuità agli enormi miglioramenti degli ultimi mesi e Red Bull e Mercedes risolvano i problemi emersi nel mondiale che si è appena concluso, fin dall’Australia potremo avere quattro macchine di livello molto simile al vertice (con le altre, Aston Martin e Alpine su tutte, pronte a dare filo da torcere), come forse non è mai successo nella storia di questo sport. Se a ciò aggiungiamo le tante storie interessanti a cui assisteremo (l’approdo, già leggendario, di Lewis Hamilton in Ferrari, il rookie Andrea Kimi Antonelli sulla Mercedes, i cambi di scuderia di Nico Hulkenberg, Carlos Sainz ed Esteban Ocon, le new entry Gabriel Bortoleto e Jack Doohan…) i presupposti per un mondiale tutto da vivere non mancano. Non ci resta da sperare quindi che anche la Federazione e gli organizzatori della Formula 1 ne siano all’altezza, non estremizzando l’americanizzazione dell’evento, evitando di introdurre altri circuiti privi di storia e fascino e non introducendo direttive tecniche in corsa che rischiano di cambiare a tavolino i valori sull’asfalto: non è necessario inseguire a tutti i costi lo spettacolo, perché ci sono tutte le carte in regola perché lo spettacolo si crei da sé.
Immagine in evidenza: © F1, X
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