Avvicinandomi al rugby, ormai molti anni fa, subivo il fascino delle battaglie fisiche attorno alla palla, elemento da sempre essenziale di questo sport. In effetti il rugby può essere visto come allegoria di un campo di battaglia tradizionale, quello dove due linee si fronteggiano in campo aperto per la conquista della vittoria, o quello delle trincee della prima guerra mondiale, dove la conquista del terreno è faticosa, lenta e lascia dietro di sé una scia enorme di morti e feriti (nel rugby possiamo parlare molto meno drammaticamente di energie fisiche ed infortuni).
Per quasi due secoli, nonostante alcune modifiche regolamentari e il miglioramento dei materiali, non ci siamo sostanzialmente mossi da questo approccio e da questa filosofia, sedimentando anche la stucchevole retorica del “tutto cuore” da parte dei non addetti ai lavori per cui si perde, ma ci si sacrifica fisicamente fin quasi allo stremo delle forze e quindi va bene così.
Dagli anni 2000 in poi e in special modo nell’ultimo lustro le cose sono tuttavia cambiate molto. Certamente l’aspetto fisico e la vittoria di mischie o punti d’incontro rivestono tutt’ora un ruolo importante, ma a partire dalla nazionale australiana e via via nelle squadre di club prima dell’emisfero australe, poi di tutto il mondo, si è assistito ad una rapida evoluzione tattica del gioco fatta di passaggi veloci, calcetti grubber in avanti sempre più ricorrenti, cambi di fronte offensivo rapidi, il tutto prendendosi anche molti rischi, con l’importante obiettivo di evitare i punti di incontro e il dispendio di energia nel difendere il possesso della palla con le ruck.
La sublimazione di questo nuovo corso del rugby l’abbiamo vista in alcune partite del Mondiale in corso, a partire da Nuova Zelanda – Sudafrica, con gli All Blacks che hanno sistematicamente aggirato la superiorità fisica degli avanti Springboks con offloads, passaggi no look, calci in avanti non di alleggerimento, ma prettamente offensivi. Anche il Giappone ha dato dimostrazione di sapersi calare perfettamente in questa filosofia e la vittoria contro l’Irlanda ne è la dimostrazione, con i verdi frastornati dai cambi di gioco rapidi e continui e costretti a soccombere nonostante la superiorità fisica e tecnica. Dal canto suo l’Italia ha mostrato di non essere impermeabile alle novità, la partita vinta in maniera convincente contro il Canada, con un uso del piede molto intelligente da parte dei mediani, è indicativa in tal senso. Un passo indietro è stato fatto nella partita contro il Sudafrica, ci siamo fatti incanalare subito negli scontri fisici (due infortuni nei primi 20 minuti) e non siamo stati incisivi in quei momenti in cui sembrava possibile colpire, forse troppo presi dalla paura di sbagliare.
Ora la strada è tracciata e non va abbandonata, al di là dei risultati, perché è l’unico modo per provare a riequilibrare le forze in campo, quando si affrontano due compagini con troppo squilibrio tecnico, la tattica conservativa non serve più a niente e genera solo frustrazione (ed infortuni).
Per questo motivo credo che guardare le fasi ad eliminazione diretta di questi Mondiali in corso sarà divertente ed emozionante, anche per i “profani”, perché il rugby ha messo da parte il suo ostinato tradizionalismo e senza perdere fascino sta diventando più appetibile anche ad occhi meno abituati a capire le varie fasi di gioco.
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