A ruota libera

Il grande dilemma dello sport: partecipare è importante o vincere è l’unica cosa che conta?

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Per tanti anni ci si è chiesti e ci si continua a domandare, quale valore attribuire alla vittoria in ambito sportivo. Ovvero spesso si declina la questione con la fatidica domanda: nello sport l’importante è partecipare o la vittoria è l’unica cosa che conta? Difficile, anzi direi praticamente impossibile, dare una risposta univoca e corretta a questo grandissimo quesito. L’obiettivo quindi delle righe seguenti non sarà quello di dare una soluzione certa al tema, ma cercare di capire la questione e fornire delle possibili interpretazioni tra le tante esistenti.

Per prima cosa bisogna sottolineare come le fazioni che si “scontrano” su questo tema, sono principalmente due. Da una parte abbiamo coloro che condividono l’idea di De Coubertin, pedagogista e storico francese, fondatore delle olimpiadi moderne. Per lui la partecipazione sta alla base dello sport, che deve essere animato principalmente da questo spirito partecipativo.

Dall’altra parte invece c’è chi vede in questo approccio quasi della pigrizia, un volersi accontentare che ti fa perdere già in partenza. Per queste persone , quindi, la vittoria è ciò che alimenta lo sport e fa rendere al meglio. Per loro chi si accontenta di partecipare ha già perso in partenza, perché il successo è l’unica linfa dello sport. I padri di questa teoria sono i grandi vincenti della storia dello sport, come il simbolo della Juventus Giampiero Boniperti: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. Oppure Enzo Ferrari: “Il secondo è sempre il primo dei perdenti”. Due modi dunque, quello pro De Coubertin e quello pro Boniperti o Ferrari, di approcciarsi al tema completamente opposti. Pensieri sostenuti entrambi però da validi motivi che andiamo ad analizzare.

Partendo dall’ultima visione, di vittoria come unica cosa che conta, qualcuno ci vede quasi del diseducativo nel dire ciò. Un modo non corretto nel descrivere un mondo, quello dello sport, portatore di valori postivi e che alla base ha il divertimento. A sostegno proprio di questa tesi abbiamo l’origine etimologica del termine sport. Parola che deriva inizialmente dal latino deportare ovvero: uscire fuori porta, cioè uscire al di fuori delle mura della città per dedicarsi ad attività sportive. A partire poi dal XIV secolo si diffonde in Inghilterra il vocabolo disport, che significa proprio divertimento. Poi il termine sarà abbreviato in sport e importato in Italia nel XIX secolo. Inoltre molti pensano come l’approccio “pro-vittoria” sia quasi un’ossessione verso il successo, che può degenerare nell’antisportività, nell’egoismo e nei casi più gravi nel doping e nella corruzione. Ovvero il voler puntare sempre e solo alla vittoria potrebbe portare ad ignorare tutti i valori positivi e fondanti dello sport, pur di raggiungere il risultato positivo.

Gli “oppositori” concordano sul fatto che la degenerazione della voglia di vincere, che sfocia nell’antisportività e nel doping, sia assolutamente da evitare. Ma hanno da ridire invece sul fatto che alla base dello sport ci sia solo divertimento, ribaltando in un certo senso il contesto. Ovvero se lo sport è principalmente divertimento come mai però, dai più grandi campioni fino ai bambini nei campetti, si rimane delusi dopo una sconfitta. “L’insuccesso mi avvilisce, mi rovina, la sconfitta dal punto di vista umano mi collassa”. Così il filosofo britannico Bertrand Russel descriveva il sentimento della sconfitta, il dolore che l’uomo prova quando subisce un insuccesso. Allora qui sostenitori della teoria pro-vittoria, si servono di diverse teorie sociologiche e antropologiche. Ovvero giustificano questa grande delusione dell’uomo, derivante da un insuccesso, affermando che ognuno di noi ha al suo interno una grande voglia di vincere. L’obiettivo dell’uomo è sempre quello di vincere, in qualsiasi ambito e momento della vita, compreso lo sport. La possibilità di affermazione e di giungere al successo è ciò che motiva l’uomo a vivere, alimenta ogni giornata della nostra esistenza. Questo succede anche per chi fa sport, dagli atleti professionistici ai semplici amatori.

Naturalmente sempre con le dovute proporzioni, il grado di delusione per chi perde una finale mondiale rispetto a chi esce sconfitto da una partita al campetto è differente. Però ciò che invece è invariato in tutti noi è il sentimento di delusione dopo una sconfitta, il dolore di non essere riusciti ad arrivare al successo.
La giusta interpretazione dello sport quindi sta nel mezzo. Ovvero non è né solo puro divertimento e semplice partecipazione, questo è intrattenimento non sport. Allo stesso tempo non è neanche solo competizione, se no come abbiamo visto diventa ossessione verso la vittoria e si rischia di cadere nell’antisportività e nel doping. Lo sport lo definirei come un fenomeno di partecipazione con l’obbiettivo di vincere, appunto però con l’obbiettivo non con l’ossessione del successo. Naturalmente questa è solo una delle tante interpretazioni possibili, di questo vastissimo e super discusso tema. Ognuno poi è libero di pensarla a modo suo e come disse Manzoni: “Ai posteri l’ardua sentenza”.

Simone Caravano
Simone Caravano 22 anni, laureato in Scienze delle Comunicazioni presso l'università degli studi di Pavia. Attualmente studente della laurea magistrale in giornalismo dell'università di Genova. Credo che lo sport sia un mondo tutto da scoprire e da raccontare, perché offre storie uniche ed emozionanti. Allora quale modo migliore esiste per fare ciò, se non attraverso la scrittura.

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