Quella generata dalla immediata uscita della nostra Nazionale femminile non è l’unica delusione di questi Mondiali d’Australia e Nuova Zelanda in via di conclusione. Negli Stati Uniti, infatti, la sconfitta ai calci di rigore agli ottavi di finale contro la Svezia ha generato un polverone mediatico assai differente dal nostro per i toni usati da commentatori e soprattutto tifosi.
Da noi, la questione è stata la ricerca di un capro espitatorio per spiegare come fosse possibile che una squadra16esima nel ranking FIFA, e che pure aveva vinto nel primo incontro contro l’Argentina, venisse eliminata dal Sudafrica, 54esima nel ranking e soprattutto alla prima vittoria di sempre ai Mondiali. Poi, certo, sono volati gli stracci fra le giocatrici, la dimissionaria Milena Bertolini e la FIGC, a suon di comunicati stampa d’altra parte rivelatisi alla fine abbastanza fumosi da non farci capire bene i dettagli della querelle. I tifosi delle azzurre, di conseguenza, hanno generalmente difeso le giocatrici (con convinzione nel caso di Cristina Girelli, l’invocata salvatrice della patria tenuta troppo in panca, un po’ meno con altre calciatrici), criticato la CT Bertolini e per le convocazioni e per la gestione del gruppo, sparato a zero su una federazione rea di non aver mandato manco un dirigente in Oceania, e di non aver cambiato allenatrice un anno fa, dopo il disastroso Europeo d’Inghilterra 2022.
La CT Milena Bertolini e la sfortunata Benedetta Orsi, esordiente al Mondiale contro il Sudafrica, e autrice dell’infausto autogoal che ha dato il via all’harakiri azzurro
Negli Stati Uniti, invece, molti tifosi delle campionesse in carica – eliminate, si badi bene, non ai gironi come le azzurre, ma agli ottavi, e per di più ai calci di rigore – hanno attaccato frontalmente le loro beniamine. Di sicuro, come fatto già notare da alcune osservatrici, c’erano in ballo ragioni sportive, come ad esempio le altissime aspettative, alimentate per altro dalle stesse giocatrici, che sono state per questo messa subito alla berlina dall’olandese Lineth Beerensteyn: «Appena ho saputo dell’eliminazione [delle statunitensi], mi son detta: “Sì! Ciao!”, perché sin dall’inizio del torneo avevano la lingua lunga (really big mouth). Parlavano della finale o cose del genere. Allora ho pensato che bisogna giocare, prima di parlare».
Tali aspetti puramente sportivi però non bastano a capire la virulenza degli attacchi specifici contro Megan Rapinoe, una giocatrice ormai sulla via annunciata del tramonto (si ritirerà a fine anno), e che in questi Mondiali ha avuto un ruolo assai defilato, entrando dalla panchina al 61’ nella partita iniziale contro le vietnamite e nella terza contro le portoghesi (senza vedere il campo nella seconda contro le olandesi), e sostituendo al 99’ degli ottavi Alex Morgan, alla quale invece il criticatissimo CT Vlatko Andonosvki ha concesso un’enorme fiducia in fatto di minutaggio, a fronte di neanche un goal realizzato. Fatti i dovuti paragoni, è come se qualcuno in Italia si fosse messo a incolpare la romanista Giada Greggi (anch’essa sempre subentrata dalla panchina) per le precoce eliminazione dell’Italia. Per trovare una risposta a questa domanda il calcio giocato non basta, dobbiamo ripercorrere a ritroso una lunga strada, che si snoda a latere del campo di pallone.
Megan Rapinoe, una capitana divisiva
Se tutti quanti siamo infatti venuti a conoscenza, durante il Mondiale del 2019, dell’odio intercorrente fra Megan Rapinoe e Donald Trump, la calciatrice non si era improvvisata attivista politica in terra francese: e per quanto anche la stampa italiana all’epoca descriveva la co-capitana statutinense esclusivamente come icona LGBTQ+, in realtà era stato un altro aspetto del suo impegno fuori dal campo a far irritare The Donald. Uno dei passaggi più interessanti dell’autobiografia One Life (2020, traduzione italiana 2021) è proprio quello in cui è la stessa Rapinoe a raccontare come i problemi per lei non siano iniziati – a differenza di quanto lei e la famiglia temessero – nel 2012 del proprio coming out («non mi aspettavo grosse ripercussioni, ma magari qualche commento negativo; sono rimasta piacevolmente sorpresa dal fatto che non ne siano arrivati»), bensì in quel 2016 in cui decise di seguire l’esempio di Colin Kaepernick, e di inginocchiarsi anche lei per chiedere maggiore giustizia per i suoi concittadini afroamericani.
Quando nel settembre di quell’anno Rapinoe fece per la prima il kneeling, in occasione di una partita col suo club di allora (FC Seattle Reign), i suoi profili social divennero bollenti: «Non mi aspettavo neanche lontanamente una tale indignazione. Quando ho portato avanti campagne per i diritti LGBTQ o per la parità di retribuzione, sono sempre stata accolta con calore. Sapevo che il razzismo era un altro paio di maniche […]. Come ha fatto notare Tina Charles, una delle migliori giocatrici di basket del mondo, indossare nastri per il cancro al seno per sensibilizzare l’opinione pubblica andava bene; sensibilizzare nei confronti del razzismo, in un campionato in cui il 70% delle giocatrici era di colore, no, questo non andava bene». C’era poi un aspetto particolare della questione che la calciatrice californiana non aveva proprio calcolato, cioè quella «confusa indignazione che i bianchi riservano ad altri bianchi che considerano ‘traditori’ della loro razza, e quella settimana ne ho sentito tutta la forza».
La Federcalcio statunitense aspettò qualche giorno dopo l’amichevole degli USA contro la Thailandia (il primo match in cui Rapinoe ebbe occasione di inginocchiarsi con la maglia della Nazionale) per far uscire «una dichiarazione che avrebbe benissimo potuto iniziare con “Cara Megan”. “Rappresentare il proprio paese è un privilegio e un onore per qualsiasi giocatore o allenatore delle nazionali di calcio degli Stati Uniti”, diceva ”[…]. Come parte del privilegio di rappresentare il paese, ci aspettiamo che i nostri giocatori e allenatori onorino la nostra bandiera restando in piedi mentre viene suonato l’inno nazionale”». Le vacanze di Natale 2016/2017 furono abbastanza infernale, visto che le imminenti elezioni presidenziali videro spaccarsi la stessa famiglia Rapinoe: a differenza di suo padre, Megan era ovviamente contraria al candidato dei Repubblicani Donald Trump.
Atlanta, partita USA – Olanda, settembre 2016: Megan Rapinoe è l’unica delle americane che si inginocchia durante l’inno
La querelle del kneeling, in ogni caso, terminò nel marzo 2017, allorquando la United States Soccer Federation ordinò formalmente a giocatori e giocatrici delle proprie selezioni nazionali di stare in piedi durante l’inno. Rapinoe accettò il diktat. Ovviamente, in One Life l’autrice si sente in dovere di spiegare il perché del gesto: «È stata una decisione difficile per me. Mi sembrava una scelta obbligata se volevo conservare il mio posto in squadra, e mi sento ancora combattuta al riguardo. Se non avessi seguito le regole della Federazione, la mia carriera calcistica sarebbe probabilmente finita e, oltre a perdere il lavoro, avrei perso la mia visibilità. La mia celebrità, così com’era, non sarebbe sopravvissuta al mio licenziamento. Ma siamo onesti: volevo anche continuare a giocare. Volevo avere quella sicurezza finanziaria, e non volevo smettere di parlare di razzismo e di brutalità della polizia, soprattutto alla luce di quello che stava succedendo a Colin. Dopo aver lasciato i 49ers a marzo, Colin era diventato un reietto ed era rimasto senza squadra, sebbene fosse uno dei migliori della National Football League, il ‘giocatorre più prezioso del decennio’ dei 49ers, secondo Pro Football Focus».
Dicembre 2016: prima di Los Angeles Rams – San Francisco 49ers, Colin Kaepernick (n. 7) si inginocchia insieme ai compagni di squadra Eli Harold (n. 58) ed Eric Reid (n. 35)
Passando al Mondiale del 2019, ciò che accese la miccia della polemica Rapinoe – Trump fu la pubblicazione, dopo la vittoria contro la Spagna agli ottavi di finale, di un’intervista che Rapinoe aveva rilasciato a gennaio alla rivista Eight by Eight: «A un certo punto mi era stato chiesto se ero contenta di andare alla Casa Bianca nel caso avessimo vinto la Coppa del Mondo. In tono confidenziale e senza riflettere avevo mormorato: “Non andrò alla fottuta Casa Bianca”. Dubitavo che saremmo state invitate, avevo aggiunto. Non avevo detto altro al riguardo, ma questo scambio è stato sufficiente».
Il video divenne immediatamente virale, e soprattutto causò la «inusuale reazione» dell’allora padrone della White House, il quale «evidentemente non aveva niente di meglio da fare» che twittare «una risposta al video, invitando la squadra alla Casa Bianca e accusandomi allo stesso tempo di aver mancato di rispetto al Paese inginocchiandomi». Nell’ormai celebre tweet del 26 giugno, Donald Trump, ricordando che le Nazionali dei vari sport «amavano venire alla Casa Bianca» e che lui stesso era «un grande tifoso della Nazionale americana», scriveva: «Megan dovrebbe VINCERE prima di PARLARE! Finisci il lavoro! Noi non abbiamo ancora invitato Megan o la squadra, ma io ora invito la SQUADRA, che vinca o perda. Megan non dovrebbe mai mancare di rispetto al nostro Paese, alla Casa Bianca, o alla nostra Bandiera, pensando soprattutto al fatto che è stato fatto così tanto per lei e per la Nazionale. Sii orgogliosa della Bandiera che porti addosso».
Non che la reazione del Presidente potesse stupire più di tanto chi lo conosceva. Come ha scritto recentemente Davide Piacenza, «più che partecipare alle culture wars, per quattro anni ‘The Donald’ è stato in prima persona le culture wars. Dalla sua onnipresente camera dell’eco di Twitter […] il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti è stato un bullo a tempo pieno: la stampa americana ha calcolato che ha insultato direttamente cinquecentonovantotto persone, esponendole al suo enorme e veemente seguito». In particolare, nel tweet contro Rapinoe ritroviamo i toni che il tycoon aveva giù utilizzato in quei mesi contro Colin Kaepernick, i Golden State Warriors di Steph Curry (cui era stato ritirato l’invito alla Casa Bianca) e il quartetto James-Paul-Anthony-Wade agli Espy’s. Come ha fatto Luca Mazzella in un bel libro sull’argomento, in tutti questi casi il presidente Trump «ha sempre inteso rispondere provocatoriamente, rilanciando il più classico dei ‘noi contro voi’ e ponendo in relazione le proteste degli atleti con le mancanze di rispetto all’intera America e ai suoi valori fondanti».
Da parte sua, in One Life Rapinoe ricorda che «non avevo intrapreso la Coppa del Mondo con l’intenzione di renderla politica; ma su invito di Trump, sono stata più che felice di farlo». Da qui la decisione, una volta tornate con la Coppa del Mondo in mano, di dirigersi non alla Casa Bianca, bensì a New York, per partecipare ad una parata pubblica, col sindaco democratico Bill De Blasio più che contento di offrire un microfono a Rapinoe. Il suo Victory speech venne sin da subito acclamato con un perfetto discorso anti-trumpiano, in cui la co-capitana delineava una America inclusiva esattamente opposta a quella bianca, eterosessuale e tradizionale che The Donald stava cercando di forgiare in quel momento.
Dopo quel discorso, Rapinoe ha continuato a mietere i frutti di quel successo politico, che era sostenuto – elemento assai importante, come capire fra poco – da un grande successo sportivo: in quanto vincitrice, poteva permettersi di dire qualsiasi cosa, nonostante il digrignare dei denti dei suoi avversari. Così il il 17 luglio 2022, a tre anni esatti dalla finale del Mondiale 2019, il nuovo Presidente Joe Biden le ha messo al collo la Presidential Medal of Freedom, ovvero la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti, per il suo impegno in favore dell’uguaglianza di genere salariale, della giustizia razziale e dei diritti LGBTQI+.
Megan nettamente a proprio agio alla Casa Bianca, mentre il Presidente Biden la chiama a ritirare la medaglia
Il post-Mondiale ha anche significato non solo il via libera al kneeling in Nazionale, ma persino – in un cortocircuito fra impegno politico e capitalismo tipico dello sport statunitense – della sponsorizzazione da parte della Nike, che ha fornito alla Nazionale una tuta di riscaldamento apposita, con su stampato a caratteri cubitali un «BLACK LIVES MATTER» assai fashion. La foto della bianca Megan Rapinoe che si inginocchia di fianco alle compagne di colore Margaret Purce, Crystal Dunn e Catarina Macario mentre altre calciatrici rimangono in piedi ha fatto il giro degli States. Il fatto stesso che Rapinoe venisse accusata dall’ex compagna di Nazionale Hope Solo di bullizzare le proprie compagne che decidevano di rimanere in piedi ad ascoltare l’inno nazionale ci mostra quanto fosse in quel momento il potere della co-capitana dai capelli viola.
La lotta contro la discriminazione razziale procedeva di pari passo con quella contro l’omofobia. Già nel 2021 la Federcalcio statunitense decideva di far scendere in campo calciatori e calciatrici della Nazionale con i colori arcobaleno, durante il mese del Pride:
Come già detto, però, questo apice del successo della capitana divisiva Megan Rapinoe si basava sulla vittoria al Mondiale francese: nell’estate di quel 2021, la Nazionale ritornava finalmente in campo per il torneo olimpico di Tokyo, rimandato di un anno a causa della pandemia. Le imbattibili statunitensi, in pieno ricambio generazionale, sono state fermate in semifinale, dovendosi accontentare di una medaglia di bronzo che non ha soddisfatto le grandi aspettative della vigilia. Ecco così servita su un piatto d’argento a Donald Trump la grande occasione di rivincita: «Se la nostra Nazionale, guidata da un gruppo radicale di squilibrate di sinistra, non fosse woke, avrebbe potuto anche vincere la medaglia d’oro invece di quella di bronzo. Woke significa che perdi, tutto quello che è woke funziona male, e la nostra Nazionale l’ha senza dubbio fatto. C’erano, tuttavia, poche Patriote che rimanevano in piedi […]. Dovrebbero rimpiazzare quelle woke con delle Patriote, e così rincominciare a vincere di nuovo». Scontato, poi, l’attacco diretto a Rapinoe: «La donna con i capelli violetto ha giocato terribilmente, sprecando sin troppo tempo a pensare alle politiche della Radical Left… e senza fare il proprio dovere!». Come si capisce dall’uso del termine woke, la storia dell’impegno politico delle calciatrici statunitensi è entrata in un’altra fase era rispetto a quella del Mondiale 2019, inserendosi a pieno titolo entro le culture wars che da anni stanno incendiando gli Stati Uniti.
Senza questo inquadramento, non possiamo capire le implicazioni anche politiche delle critiche a questa Nazionale statunitense eliminata ai quarti di finale dalla Svezia, e soprattutto perché molti haters rinfaccino ora alla 38enne Megan Rapinoe i gesti, le parole e le immagini che abbiano raccontato fino ad ora. Non possiamo inoltre capire perché tali tifosi li contrappongano in maniera contrastiva con quelli della Nazionale del 1999, tutta dominata da quell’icona inclusiva che è stata Mia Hamm, simbolo di un calcio femminile sì vincente ma anche rassicurante: brave ragazze della porta accanto (con l’iconica coda di cavallo a certificarlo), bianche ed eterosessuali (in una Nazionale in cui l’unica afroamericana, Briana Scurry, non aveva il coraggio di fare coming out), e che soprattutto stavano in piedi quando, a differenza di Rapinoe e compagne, cantavano con orgoglio l’inno, in piedi.
Le giocatrici statutinensi ascoltano l’inno (poche di loro lo cantano, come Alex Morgan, la quinta da sinistra) prima della partita contro le olandesi, ai Mondiali del 2023
Alex Morgan, una capitana madre
Questo d’Australia è stato un Mondiale deludente anche per la 34enne Alex Morgan, la veterana su cui, a differenza di Megan Rapinoe, la macchina mediatica della Nazionale USA aveva puntato, in fase di avvicinamento. Col senno di poi, anche troppo (vedi la statua piazzata nel bel mezzo di New York), ma in ogni caso questa sconsiderata strategia ci ha regalato uno delle migliori pubblicità sportive di sempre, intrisa di una auto-ironia che ben si adatta al personaggio, capace anche di prendere in giro il proprio essere stata icona globale per una generazione intera di calciatrici.
Dopo l’eliminazione Morgan, interrogata sul proprio futuro, ha dichiarato: «Io il calcio lo amo, ma non coincide con la mia identità, non è tutto ciò che sono … Penso che molte persone mi vedano come “Alex Morgan la Calciatrice”, ma spero che ora inizino a vedermi come “Alex Morgan l’Attivista”, “Alex Morgan l’Imprenditrice”, “Alex Morgan la Madre”». Un bel modo di dribblare le polemiche, e di far squarciare forse un po’ le retorica che per anni ha visto nelle calciatrici degli USA appunto delle American Heroes chiamate a cambiare per forza il mondo a suon di vittorie.
Alex Morgan, con già addosso il giaccone della sostituzione e in testa la sua iconica headband rosa, alla fine di USA-Svezia, assieme alla figlioletta Charlie
C’è tuttavia una parola che suonerà strana al pubblico italiano, ed è appunto «madre», e non solo perché chi segue il calcio femminile ogni 4 anni in occasione dei Mondiali potrebbe essersi perso la nascita, il 7 maggio 2022, della piccola Charlie. Il problema è proprio la situazione del nostro paese, in cui essere calciatrice e madre è una utopia bella e propria, come spiegato nel dettaglio qualche giorno fa da Giorgia Bernardini in un interessantissimo articolo .
Nel pezzo, pubblicato da Domani, la giornalista parte da un dato semplice ma significativo: a differenza degli USA di Alex Morgan e dell’Australia di Katrina Gorry e Tameka Yallop, la Nazionale italiana non ha convocato per il Mondiale nessuna calciatrice madre. Non poteva farlo per il semplice fatto che nella stessa serie A l’unica che risponde a tale appello è un’islandese, la juventina Sara Björk Gunnarsdóttir, capace per altro qualche mese fa di portare in tribunale e di vincere la causa contro l’Olympique Lione, il suo ex club reo di non averle pagato tutti i mesi dovuti per la maternità. Una possibilità che solo ora diventa credibile per le sue colleghe italiane, dal momento che il tanto agognato status di professioniste concesso dalla FIGC nel luglio del 2022 rafforza le tutele già previste dal regolamento FIFA del 2021. Nonostante tutto ciò, secondo Bernardini, al di là di queste pur rivoluzionarie tutele giuridico-economiche, «resta forte la sensazione che […] a causa resistenza sia soprattutto un pensiero ormai interiorizzato nele donne lavoratrici di tutte le categorie, cioè che avere un figlio metta a serio repentaglio la possibilità di riprendere la propria carriera da dove era stata interrotta». Tutt’altra aria si respira all’estero, soprattutto negli USA e in Australia, ove le contrattazioni strappate a suon di lotte dalle calciatrici locali prevedono «dodici mesi di congedo parentale pagato, nonché il diritto di ritornare alla squadra nazionale dopo i dovuto controlli medici», nonché «supporti economici e l’alloggio, garantiti fino ai due anni del bambino». Non stupisce questa attenzione ai bisogni delle calciatrici da parte della Nazionale degli Stati Uniti, la squadra che in questi ultimi anni «esprime il calcio femminile al massimo delle possibilità, non solo su un piano tecnico, ma anche sociale e politico. In questo senso, sembra quasi una logica conseguenza che la maternità di Morgan, immediatamente successiva a quel Mondiale di Francia, si sia rapidamente trasformata in una specie di maternità paradigmatica, una sua declinazione possibile che prima di Morgan non si era mai vista». All’epoca fecero infatti il giro dei social le immagini di Alex che «durante un raduno con la Nazionale corre su e giù per il campo con una pancia pronunciata, come a voler significare che lo stato di attesa di un bambino, contrariamente a quanto ancora troppo spesso si ritiene, non può impedire ad un’atleta di essere se stessa: una donna, cioè, che usa il corpo in salute come strumento di lavoro».
In Italia non siamo affatti abituati ad associare sport femminile e maternità, per il sempice fatto che sono pochissime le atlete azzurre di successo che diventano genitrici ancora in attività, come la pallanuotista Noemi Toth, la canoista Josefa Idem e la schermidrice Elisa Di Francisca. Ciò è dovuto certamente a motivi economici assai pratici, cioè appunto al mancato riconoscimento dei diritti delle madri lavoratrici (motivo per cui le sportive che comunicano di essere riamste incinta rischiano di perdere il proprio posto, come dimostrato dalla recente vicenda della pallavolista Lara Lugli), ma pure ad un problema di immaginario di cui è vittima nel nostro paese il calcio, considerato purtroppo da sempre un «gioco per signorine».
Un anno fa la storica dirigente del calcio femminile italiano Natalina Ceraso Levati, presente come accompagnatrice della Nazionale italiana al Mondiale di USA 1999, mi ricordava come una delle cose che la stupì di più fu proprio il trattamento della maternità da parte di quelle calciatrici statunitensi che, vincendo il titolo in casa, riuscirono a far diffondere il women’s soccer a macchia d’olio in tutto il Paese. Prima di tutto, Mia Hamm e compagne andarono «in ritiro, quelle sposate, con marito e figli: sono andate in ritiro per due mesi, per prepararsi – perché fra l’altro loro, non avendo il campionato, perché sa che in America c’erano i college, non il campionato … -, ecco, loro sono andate in ritiro con marito e figli, chi ha voluto»: una cosa impensabile, per un’Italia che del resto anche allora non annoverava (e come avrebbe potuto del resto, a quelle condizioni?) madri fra le proprie convocate. In secondo luogo, quelle calciatrici arrivarono a litigare con la FIFA per ottenere il diritto di poter mostrare in pubblico il simbolo del loro matrimonio: accettarono quindi di scendere in campo togliendosi gli orecchini, come richiesto dal regolamento, ma non la vera matrimoniale.
Anelli al dito, le statunitensi alzano al cielo la Coppa del Mondo 1999
In effetti, durante la diffusione del women’s soccer in America venne dato molto spazio non solo alle soccer mums che accompagnavano le giovanissime calciatrici epigoni di Mia Hamm ai campi d’allenamento, ma alle stesse calciatrici dello United States Women’s National Team (USWNT) che avevano iniziato ad aver figli. La prima in assoluto fu, nel 1994, Joy Fawcett, seguita poi dalla capitana Carla Overback: vederle a fine partita o durante i ritiri con la prole divenne normale per tutti, tifosi compresi, che potevano vedere queste immagini di “famiglia sportiva” su riviste quali Good Housekeeping, Shapee Parents. La tradizione è poi nel corso degli anni andata avanti, come da foto Jessica McDonald che, durante i festeggiamenti seguenti la finale del 2019 contro le olandesi, tiene in mano la Coppa del Mondo assieme al figlioletto Jeremiah.
Mamma Jessica che porge la Coppa del Mondo al piccolo Jeremiah
Dopo la nascita di Charlie, Alex Morgan non ha fatto nient’altro che proseguire su questa strada, se possibile rinforzandola ancora di più, all’epoca in cui con cui con uno smarthphone in mano si può non solo filmare ciò che accade sul campo a fine partita, ma anche ad esempio negli spogliatoi prima del match.
Fino a qua, l’ostensione della propria maternità da parte di Alex Morgan potrebbe essere vista dall’Italia come un fenomeno assimilabile a quello di una star mediatica che sfrutta questa esperienza personale per aumentare la propria visibilità. Morgan, che come abbiamo visto si auto-dichiara imprenditrice (di se stessa), sicuramente lo fa anche anche per quello: ma c’è in gioco anche dell’altro.
Orlando, febbraio 2023: Alex e Charlie alla She Believes Cup, in occasione di Canada-USA
Il fatto è che negli ultimi anni le calciatrici statunitensi non hanno lavorato solamente per ottenere l’equal pay, ma pure per migliorare le condizioni di lavoro di quelle che fra loro portavano a termine una gravidanza, come dichiarato dalla stessa Morgan: «Nessuna nazionale supporta le calciatrici madri come fanno oggi gli Stati Uniti. E questo è qualcosa per cui abbiamo lavorato davvero duramente». Percepiamo allora l’attivismo presente in filigrana in un video altrimenti puccioso come quello rilasciato dal profilo dello USWNT il 15 maggio 2023, in occasione della Festa della Mamma.
Come dice Morgan nel video, «per altre madri o genitori che provano a trovare una forma di equilibrio (fra famiglia e lavoro, ndr), tutto quello che posso dire è che ce la potete fare. È difficile, ma tutto quello che conta, nella vita, è difficile. Il fatto che io sia una mamma e al contempo riesca a competere ai livelli più alti del calcio è la cosa più gratificante della mia vita».
Austin, aprile 2023: Alex e Charlie alla fine dell’amichevole USA-Irlanda
Il presente articolo contiene estratti riadattati di «Capitane coraggiose. Sara Gama e Megan Rapinoe: due leader a confronto», appena pubblicato da Ultra Sport
Immagine in evidenza: HelloMagazine
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