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Il curioso caso del calcio in Corea del Nord, aspettando che i pesci giochino nell’acqua grande

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22 settembre 2024. Stadio Nemesio Camacho di Bogotá. La nazionale femminile U20 della Corea del Nord vince la Coppa del Mondo di categoria di calcio. Un trionfo senza rivali, un percorso portato avanti da schiacciasassi da parte di un Paese, da sempre, conosciuto più per certe situazioni geo-politiche che per meriti sportivi. Un Paese che finora non è mai entrato definitivamente nel gotha del calcio mondiale, nonostante una serie di successi importanti e una qualità di giovani invidiabile.

La Corea del Nord sul tetto del mondo

Il 31 agosto parte in Colombia il Mondiale femminile U20 di calcio, undicesima edizione della rassegna iridata giovanile. Le grandi potenze come Giappone, Stati Uniti d’America, Paesi Bassi, Spagna e Brasile portano avanti un ottimo torneo, giungendo, chi più chi meno, alle fasi finali del tabellone a eliminazione diretta. In tutto ciò, la Corea del Nord strapazza tutti. Il girone, ovviamente, lo vince, impressionando per la facilità. 6-2 all’Argentina, 9-0 alla Costa Rica e 2-0 ai Paesi Bassi. Oltre a dimostrare una sicurezza impareggiabile, la Corea del Nord mette in campo una concentrazione sul lungo periodo che, vista da fuori, è disarmante. Agli ottavi di finale, l’Austria ne prende cinque. Poi, il livello delle avversarie sale e sale, ancora di più, quello delle ragazze di Pyongyang. Fuori il Brasile, 1-0 ai quarti, e fuori anche le statunitensi, altro 1-0, in semifinale. La finale di Bogotá è tra le nordcoreane e il Giappone, carnefice delle neerlandesi nell’altra semifinale.

L’atto conclusivo di Bogotá tra le due compagini asiatiche, in uno stadio comunque colmo di colombiani in festa, è una sorta di derby. Non solo per la forza delle due squadre ma, soprattutto, per la rivalità storica tra le due popolazioni. Nel 1910, l’intera penisola coreana (compresa, quindi, anche l’odierna Corea del Sud) fu vittima di un’annessione forzata all’Impero giapponese, che ebbe fine solo con la resa di Tokyo al termine della Seconda Guerra Mondiale.

La finale, arbitrata dall’italiana Maria Sole Ferrieri Caputi, è equilibrata, ma la Corea del Nord ha quel quid in più. Tenendo il baricentro molto alto, l’undici nordcoreano risulta estremamente compatto, rendendo pressoché impossibile per il Giappone fendere la formazione avversaria. Il gioco delle ragazze di Ri Song-ho implica aggressività, cinismo e lucidità, tutto condito da un’imponente preparazione atletica. Sulla singola giocatrice avversaria, la Corea del Nord non va a raddoppiare ma decide addirittura di triplicare la marcatura individuale, adombrando così le principali fonti del gioco giapponese, tra cui Manaka Matsukubo e Maya Hijikata.

Le trame nordcoreane, tessute dal centrocampo, fanno emergere le qualità di giocatrici come Chae Un-yong, capitana onnipresente sul prato, e Choe Il-son, centravanti e punto di riferimento offensivo. In un modo o nell’altro, il pallone arriva a lei e nella stra-grande maggioranza dei casi, il risultato dell’incontro cambia. È proprio di Choe Il-son, infatti, la rete decisiva della finale, alla quale vanno i premi di migliore marcatrice e di migliore giocatrice del torneo.

Lo spunto di riflessione qui è il seguente: per la Corea del Nord si tratta della terza Coppa del Mondo U20 della sua storia, al pari di Germania e Stati Uniti. Con la differenza che a Berlino e Oltreoceano le ragazze crescono ed emergono anche nel calcio delle grandi mentre a Pyongyang sembrano esserci meravigliosi fiori incapaci di sbocciare e trovare un loro posto nel mondo.

Com’è il calcio in Corea del Nord?

Le Azalee d’Oriente (a proposito di fiori, questo è il soprannome delle calciatrici nordcoreane) vivono in un equilibrio paradossale. Da una parte, la Corea del Nord rappresenta una delle grandi potenze del calcio asiatico, insieme al succitato Giappone, alla Cina e all’Australia. Tant’è vero che sono none nel ranking mondiale, davanti a colossi come Francia, Paesi Bassi, persino Italia e Australia. Guardando ai risultati più importanti della nazionale femminile nordcoreana, ci sono tre medaglie d’oro conquistate ai Giochi asiatici, per un totale di sette podi.

In campo maschile, non si può certo dire lo stesso. Anzi. Fatta eccezione per due medaglie asiatiche vinte diversi decenni fa, l’unico ricordo che lega Pyongyang al grande calcio, può essere quello, in bianco e nero, di Pak Doo-ik, il famoso dentista (che poi dentista non era, in verità) che con la sua rete eliminò l’Italia di Edmondo Fabbri dal Mondiale del ’66. Per il resto, il nulla o quasi.

I successi delle donne, però, fanno da contraltare ad una nazionale mai impostasi nei grandissimi palcoscenici, come quelli di un Mondiale o un’Olimpiade, competizioni con le quali il rapporto sembra non essere mai nato. In modo molto schematico: nella massima rassegna della FIFA, quattro partecipazioni su nove edizioni, senza mai spingersi oltre i quarti di finale, raggiunti unicamente nel 2007. La musica non cambia granché nel contesto olimpico: otto edizioni e due sole partecipazioni.

Tra Mondiali e Giochi, ben due ritiri. Come è facilmente immaginabile, per motivazioni tutt’altro che sportive.

Lo sport è ancora succube della propaganda? Il caso della Corea del Nord

Il grande punto di forza e, allo stesso tempo, il grande handicap del calcio nordcoreano è senza dubbio quel filo sottile che lo lega allo Stato. La Corea del Nord, da denominazione ufficiale, sarebbe una repubblica popolare democratica. De facto, è risaputo come il regime della dinastia Kim sia in realtà una dittatura totalitaria in tutto e per tutto con, a detta degli esperti, un culto del presidente e della patria con pochissimi eguali al mondo.

Un unico schieramento politico, il Partito del Lavoro, guidato direttamente dal capo di Stato, a cui tutto e tutti fanno riferimento. Anche lo sport e gli sportivi. Tutte le neo-campionesse del mondo U20 giocano in club nordcoreani. Di più: tante militano nell’April 25, la squadra più titolata del Paese, diretta espressione del Ministero delle forze armate popolari. La Difesa, in sostanza.

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La Pyongyang International Football Academy prepara le future stelle della nazionale femminile di calcio della Corea del Nord

Con tutti i doverosissimi distinguo del caso, sia chiaro, come accade in Italia con i gruppi sportivi militari, questi club danno l’opportunità a calciatori, calciatrici e atleti di altri sport di potersi concentrare sul loro lavoro di sportivi. Ne beneficia, chiaramente, la qualità degli allenamenti e lo stile di vita. Soprattutto in un Paese come la Corea del Nord, nel quale, al di fuori di Pyongyang, l’emarginazione per povertà e fame è all’ordine del giorno. Entrare in una squadra come l’April 25, allora, significa prima di tutto migliorare la propria vita, trasferendosi nella capitale e potendo contare su diverse agevolazioni, altrimenti impossibili.

L’altra faccia della medaglia riguarda lo Stato che, in questa situazione, è padre padrone di tutto. Anche dello sport che, invece, dovrebbe essere il più genuino “reparto giocattoli della vita“. Riporta a tempi bui, quando fasci e svastiche imperversavano per le strade delle grandi città. A quando lo sport veniva insultato, usato dal dittatore come mero strumento di accrescimento di sé. Non dell’elogio dell’atleta, non del gesto tecnico o dell’emozione. Bensì, come semplice spugnetta per lustrare e far brillare l’emblema della patria, della bandiera e soprattutto di chi, quella patria, la governa.

Dall’abisso all’acqua grande, forse

Anno centrale della storia recente del calcio nordcoreano è il 2011, quando la nazionale delle Azalee d’Oriente viene coinvolta in una brutta questione di doping. Durante il Mondiale in Germania, la FIFA annuncia la positività di due giocatrici, che vengono sospese con effetto immediato. Neanche dieci giorni e altre tre calciatrici risultano avere valori fuori norma, questa volta in un controllo mirato su tutta la squadra nordcoreana. La spiegazione offerta da Pyongyang è poco credibile, oltre che non sufficiente a evitare sanzioni: la positività sarebbe stata dovuta a una medicina tradizionale utilizzata su alcune giocatrici dopo che un fulmine aveva colpito il loro campo di allenamento. Da lì, l’esclusione dal Mondiale 2015, la qualificazione fallita alla rassegna del 2019 e l’assenza dall’ultima Coppa del Mondo, quella del 2023, in seguito alla ristrettissima politica anti-covid.

Ora come ora, mentre la nazionale maschile rincorre una difficile qualificazione al Mondiale del 2026 in Nordamerica, le donne, dopo doping, pandemia e altro, puntano a tornare competitive. Anche perché, in un panorama calcistico come quello femminile attuale, una nazionale come la Corea del Nord potrebbe togliersi grandi soddisfazioni.

Choe Il-son e Manaka Matsukubo, premiate come migliori giocatrici del torneo (foto: FIFA)

C’è un proverbio coreano che dice che i pesci dovrebbero giocare nell’acqua grande. Come si può pensare di chiudere questi animali in uno spazio angusto o, comunque, chiuso, come può essere una vasca o un acquario? Allargando il discorso, questo forse vale anche per i grandi piccoli talenti della nazionale nordcoreana. Perché ingabbiare queste calciatrici all’interno dei propri confini nazionali, pur in un buon campionato ma, per evidenti motivi, tutt’altro che visibile? Non sarebbe bello vedere Choe Il-son giocare in una grande squadra europea, far coppia con le più grandi bomber e competere con rivali accreditate in Champions League?

Con i se e con i ma, la storia non si fa. Approfondire, fare domande e dare risposte, però, in certi casi, può aiutare. Quel che è certo è che risentiremo molto presto parlare della nazionale femminile di calcio della Corea del Nord. Aspettando che i pesci possano finalmente giocare anche nell’acqua grande…

Immagine in evidenza: © FifaWorldCup, X

Giuseppe Bernardi

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