In uno dei capitoli più godibili delle sue memorie (Quando le Botteghe erano Oscure. 1944-1969: uomini e storie del comunismo italiano), il napoletano Massimo Caprara (1922-2009), storico segretario di Palmiro Togliatti, a partire dal ritorno di quest’ultimo in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale fino allo strappo del Manifesto, racconta il suo incontro con Ernesto “Che” Guevara (1928-1967). Un incontro avvenuto nell’aprile del 1964 «nel gran salone al primo piano delle Udienze del cardinal Legato, nel cuore della Montecitorio occidentale e repubblicana».
La discussione, che all’inizio non pareva ingranare molto, in un secondo momento si accese assai, tanto che il deputato napoletano ebbe modo di discutere col guerrigliero argentino di moltissimi argomenti. Fra i tanti, pure un passaggio di carattere sportivo, che ci permette di capire come il baseball e gli scacchi fossero percepiti in maniera diversa a Cuba e in Italia, a quell’altezza cronologica: ennesimo esempio di come la memorialistica non sportiva possa aiutarci a ricostruire, con piccoli ma significativi carotaggi, la mentalità diffusa di quegli anni, per di più in ottica comparata.
“Che” Guevara partecipante ad un torneo internazionale di scacchi
Dopo aver provato invano a spiegare a Caprara il ruolo dell’isola ora guidata da Fidel Castro rispetto agli Stati Uniti, il “Che” «cambiò tono e argomento, forse deluso, forse improvvisamente stanco del futuro che già gli pesava addosso. Chiese perché a Roma non aveva visto gente che giocasse a scacchi per strada. Gli risposi che in Italia non ne esisteva, di gente del genere. Replicò di essere un gran giocatore. Soprattutto di baseball. “Sono un pitcher, un lanciatore”. “Mi dispiace, non ne so nulla di questo sport”, dissi con impaccio, notando il fumo denso e odoroso che usciva come una mitica cortina dal suo sigaro Romeo y Julieta mentre lui s’avviava».
Vecchi cubani che giocano in strada, nel 2015, col “Che” sul berretto a vegliare sulla partita…
Da una parte, lo sdegno di Guevara è ben comprensibile se pensiamo non solo alla realtà della società cubana, ma anche al pensiero del Lìder Maximo, che due anni dopo, nel 1966, avrebbe affermato che «il miglior antidoto che si può trovare contro il vizio del gioco sono gli scacchi… Gli scacchi aiutano a sviluppare la mente a riflettere». Il “Che”, da parte sua, era un entusiasta giocatore, e sin dall’infanzia in Argentina aveva partecipato a tornei, fra cui quello diventato leggendario col maestro di origine polacca Miguel Najdorf (1910-1997): quest’ultimo aveva sconfitto i 50 bambini contro cui giocava bendato, pareggiando però col piccolo Guevara. Come ricorda Alberto Granado, «anni dopo, quando Najdorf visitò Cuba, ritrovò il “Che” come dirigente della Rivoluzione. Fecero un’altra simultanea con altri cento giocatori. Najdorf offrì al “Che” il pareggio della partita, che Guevara non accettò. Disse: “Ho fatto già un pareggio, con lei”. Ovviamente la partita la vinse Najdorf».
Che Guevara giocatore di baseball che, guantone infilato in mano, partecipa ad una partita fra due squadre di militari – lui ovviamente nella stessa squadra di Fidel Castro
Passando al baseball, disciplina allora pochissimo praticata nel nostro Paese dopo i primi entusiasmi dovuti alle esibizioni dei soldati americani, era vista da Castro in persona come il possibile strumento (pacifico) di rivincita sportiva contro gli odiati USA. Se già nel 1962 Fidel sospirava che «quando gli yankee si decideranno a competere con la nostra patria, allora li vinceremo nel baseball, e si potrà provare la superiorità dello sport rivoluzionario su quello capitalistico», capiamo meglio perché nel 1976 si lamenterà dell’esclusione di questa disciplina dal programma olimpico: «è ingiusto considerare alcuni sport in diritto di essere presenti alle Olimpiadi e non, per esempio, il baseball…». La storia darà ragione al presidente, visto che la nazionale cubana si farà trovare pronta, e vincerà i primi due ori messi in palio, a Barcellona 1992 ma soprattutto ad Atlanta 1996.
Tifosi della Nazionale cubana di baseball con l’effige di Che Guevara sulla bandiera del proprio Paese, durante Cuba-Cina 17-0, partita valevole per il torneo olimpico di Pechino 2008
C’è tuttavia un’altra ragione di sdegno, per una persona che aveva abitato a Cuba in quegli anni, legata in questo caso non ai rapporti con gli altri stati, ma alla mentalità propria del popolo cubano. Come evidenziato dallo studioso Thomas F. Carter (citato da Bruno Barba), infatti, nella Cuba di Fidel Castro «il “discutir pelota” ‘discutere di baseball’ è percepito come un’esplicita dichiarazione di mascolinità». Forse fu anche questo che, in mezzo agli ori e ai velluti di Montecitorio, fece sentire un pesce fuor d’acqua il rivoluzionario d’oltreoceano. Era per lui l’ennesimo esempio d’incomprensione con quell’Occidente, sì comunista ma così diverso da quello che aveva conosciuto e forgiato egli stesso fra l’Atlantico e il Pacifico. Un Occidente che in quel momento gli si palesava davanti con il volto di un raffinato dirigente di partito, sicuramente acculturato, ma figlio non solo del comunismo italiano, storicamente diffidente riguardo le potenzialità educative e di crescita personale offerte dallo sport, ma soprattutto di quella Napoli in cui perdurava la maledizione di Benedetto Croce, così ricordata dalla figlia Elena (n. 1915): «un mio cugino Croce ad un certo punto era diventato un asso del volante, e papà era indignato, perché gli sembrava una cosa così scema…».
Immagine in evidenza: Reddit (https://bit.ly/496jHOs )
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