Intervista a cura di Marco Cangelli e Mirko Efoglia
Il mondo dello sci alpino è cambiato radicalmente negli ultimi anni. Quello sport che ci ha regalato fenomeni come Ingemar Stenmark, Franz Klammer, Pirmin Zurbriggen e Alberto Tomba si è evoluto insieme alla tecnologia, perdendo in parte quelle emozioni che Giorgio Keller ha avuto modo di conoscere in prima persona.
A lungo corrispondente televisivo e radiofonico per RSI, Radio Z Zurigo, RAI Italia, ORF Austria, BR3 Germania, il giornalista di Bellinzona ha seguito 575 gare di Coppa del Mondo dal 1979 al 2005 partecipando alle principali competizioni mondiali e olimpiche dell’epoca, conoscendo da vicino i principali campioni del periodo.
Un’esperienza che gli ha consentito di approfondire i principali segreti di questo sport e le differenze che oggi lo rendono purtroppo più lontano dagli appassionati e dagli addetti ai lavori, talvolta costretti a seguire le dinamiche esterne che avvolgono il settore, come raccontato durante la puntata del nostro podcast “Sfere di Cristallo”.
Giorgio Keller, lei ha assistito dal vivo e scritto di innumerevoli carriere di fuoriclasse sia al maschile sia al femminile. C’è qualche sciatore che la lasciava a bocca aperta o di cui era meravigliato delle gesta?
Non potrei citare dei nomi in particolare, certo che si rimane sempre un po’ meravigliati di qualche exploit particolare, ad esempio di certe gare che Alberto Tomba sapeva ribaltare malgrado una prima prova forse non troppo redditizia, ma anche di certi recuperi di Vreni Schneider in slalom. Mi ricordo di Waterville, mi pare nel ’91, dov’era dodicesima dopo la prima manche e che per vincere la Coppa di specialità doveva vincere; ebbene la vinse.
Venendo alla mansione di giornalista, essendo stato uno dei pochi a viaggiare in ogni continente (USA, Giappone e Nuova Zelanda) sin dagli anni ’80, come si sviluppava il lavoro quotidiano e quali difficoltà incontrava nel collegarsi col Vecchio Continente?
In particolare con l’America e il Canada bisognava essere velocissimi a comunicare a causa del fuso orario che poteva arrivare a nove ore e bisogna considerare che “a casa” a serata inoltrata tutti volevano (e dovevano) “chiudere”. Non si poteva semplicemente prendere in mano il telefono e comporre il numero, serviva la carta di credito AT&T e passare attraverso la centralinista. Lavoravo per diverse agenzie e stazioni radio in tre lingue e i diversi collegamenti telefonici non funzionavano sempre. Niente fax: bisognava leggere le classifiche pronunciando lettera per lettera: provaci con Liisa Savijarvi in italiano, tedesco e francese…
C’è qualche atleta con il quale ha stretto legami al di fuori del mondo lavorativo?
Effettivamente successe che ebbi qualche relazione con ragazze quando correvano e con un’atleta ci sposammo dopo il suo ritiro. Ma andò a finire che poi, per usare un termine del gergo, non terminammo la gara…
Lei conosce bene anche Alberto Tomba. Ha qualche aneddoto su di lui?
Uno in particolare: come lo conobbi. Attraversavo Sölden quando vidi che davanti all’albergo degli italiani qualcuno faceva autostop. Lo feci salire. Ecco, mi dissi, questo è il Tomba, uno di pianura di cui si dice un gran bene e che lo scorso inverno fu terzo al Mondiale di Crans-Montana. Salimmo fino al Rettenbachferner, il ghiacciaio, e lui avendo visto la macchina con targhe svizzere parlava, diciamo rosicchiava dentro sé stesso delle parole in tedesco. Arrivati, mi ringrazia alché gli rispondo che la prossima volta poteva parlare italiano. Da lì ebbi sempre qualche “vantaggio”, ad esempio potei andare a fotografarlo a casa sua, con mamma, sorella, quattro cani e due cugine, una delle quali, Simona, poi sposata con Hubertus von Hohenlohe. Lo visitai nella sua villa il giorno prima che partisse per Calgary dove poi vinse due ori. Un secondo aneddoto. Quando vinse a Madonna di Campiglio, circondato nel parterre da un esercito di carabinieri, scusandomi per il gioco di parole. Ebbene, lo chiamai da lontano e gli feci vedere il mio microfono e così si fece largo tra i Carabinieri per venire da me e rispondere alle mie due-tre domande.
Ci sembra d’obbligo parlare anche di Svizzera e di attualità. Marco Odermatt è ancora giovane, ma ha già dimostrato ampiamente le sue doti. In lui ritrova qualche caratterista dei grandi elvetici del passato?
Indubbiamente si rivede un Zurbriggen del passato, uno che vinse tutto quanto poté vincere, in particolare almeno una vittoria per disciplina. Più Mondiale e Olimpiadi. Indipendentemente dal fatto che Odermatt non faccia slalom – e la cosa non lo turba – ci sono comunque tutti gli estremi per paragonare i due.
Sappiamo che Giorgio Keller oltre a scrivere e realizzare interviste è stato un fotografo. Cosa cercava nello scatto? C’è qualche curiosità/particolarità nello scattare le foto di rito?
Ero un cosiddetto fotografo d’azione, cioè immortalare al millesimo il passaggio, tutt’al più al 500esimo in slalom dove si seguiva l’atleta fino allo scatto. Per me era importante avere lo sfondo pulito, neutro, tipo cielo blu o pineta, non qualche soldato con la pala in mano. E quando parliamo di Mondiali o Olimpiadi, bisognava essere sul posto della fotografia due, anche tre ore prima della gara. Ebbi la soddisfazione che una mia foto di Franz Klammer finì in copertina del settimanale Newsweek, febbraio 1984.
Quali sensazioni si provano ad assistere ai Giochi Olimpici, nel suo caso per ben quattro edizioni? Ha qualche aneddoto che ricorda con piacere di Sarajevo 1984, Calgary 1988, Albertville 1992 o Lillehammer 1994?
Le “sensazioni”, se vogliamo chiamarle così, sono che ai grandi eventi tutto è più stressante. Affaticante, per dirne una, direi i meno 20-22 gradi alle 8 di mattina a Calgary, in pista, in postazione fotografica tre ore prima dell’avvio della prova cronometrata o della gara.
In conclusione, le manca non essere più nei parterre delle piste?
Tutto è evoluto dai primi anni 2000, quando abbandonai lo sci. Da quanto mi dicono ex-colleghi, oggi la vita al parterre è difficile e se vuoi parlare a qualcuno, tutto passa attraverso i capistampa delle federazioni. Mi dicono che le sale stampa siano vuote a metà. Oggi tutte le tv sono sul posto coi “flash” dal parterre, dunque serve stare a casa e ascoltare. Oggi ci sono gli appuntamenti fissi con le squadre in albergo, una volta si andava spontaneamente e se incontravi qualcuno, stavi a scambiare quattro chiacchere. Credo che tutto l’ambiente familiare che c’era una volta sia scomparso. Tornando alla domanda… Francamente sapete che non lo so? Forse dovrei fare un provino.
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