Il recente addio di Segafredo alla Trek, con l’arrivo di LIDL, crea un vuoto nel World Tour, il massimo circuito del ciclismo. Non c’è più nessun main sponsor italiano e quest’assenza non che può che avere conseguenze negative sul movimento azzurro. Ma perché le aziende del nostro Paese non investono più in questo sport? L’abbiamo chiesto a Gianni Savio su Gregari di Lusso, il nostro podcast dedicato al ciclismo.
L’attuale general manager della GW Shimano-Sidermec ha vissuto questa problematica in tutta la sua rilevanza dopo l’addio di Drone Hopper e la rinuncia alla licenza di Professional. È ripartito da una Continental di origine colombiana, Savio che ha vissuto nello stesso ruolo il periodo d’oro del ciclismo italiano. Quegli anni ’90 che hanno visto le nostre aziende scrivere la storia di questo sport, grazie agli investimenti della Mapei del patron Giorgio Squinzi, di Mercatone Uno che ha legato per sempre il suo marchio alle imprese di Marco Pantani o della Carrera diretta da Davide Boifava.
Poi il ciclone doping che investito il ciclismo intero, ma da cui l’Italia ha fatto più fatica di altre nazioni a rialzarsi. Che impatto ha avuto sul dialogo con le aziende, ne paghiamo ancora le conseguenze? In un mondo, quello delle due ruote, in cui gli unici ricavi di una società professionistica sono rappresentati dagli sponsor. Savio ci ha illustrato chiaramente cosa significa questo modello economico e come sia cambiato con l’arrivo delle multinazionali, prima di cui l’Italia poteva vantare ben quindici squadre professionistiche. Un passato da cui il Principe, alla sua trentanovesima stagione nel cuore del ciclismo, parte alla ricerca delle radici di un legame, quello con le aziende italiane, spezzatosi nella prima metà degli anni ’10. L’addio di Segafredo è l’ennesimo campanello d’allarme, che rimbomba seguendo quello lanciato da Davide Cassani lo scorso anno. Lasciata la guida della nazionale, l’ex corridore romagnolo ha annunciato l’inizio di un dialogo con diversi grandi marchi del Bel Paese per la costruzione di una futura squadra World Tour. Un avvicinamento conclusasi con un nulla di fatto: “La mia idea di fare una squadra professionistica vera e propria resta un sogno. Per l’Italia, senza una squadra World Tour dal 2017, è molto difficile trovare le risorse e gli sponsor che ci credono. Le cifre si sono alzate enormemente“.
Eppure nel massimo circuito delle due ruote sono presenti molti direttori sportivi italiani, tanti tecnici, tra meccanici e massaggiatori. La maggior parte sono ereditati dagli anni d’oro ed è un dato che conferma come la nostra efficienza nella gestione delle strutture non è mai sfumata. Come sono tante le imprese italiane attive nel settore della componentistica del ciclismo che conta. Così, l’interrogativo che abbiamo rivolto a Savio si fa ancora più fitto. Soprattutto alla luce di un ritorno pubblicitario e di visibilità molto importante, grazie all’alto valore mediatico. I numeri raccolti da Nieslen parlano di 2,4 miliardi di spettatori raggiunti durante gli eventi del calendario World Tour, su una copertura televisiva di circa 70000 ore. Cos’è che allora non fa avvicinare le aziende italiane al ciclismo? Gianni Savio ha provato a tracciare una risposta completa.
Immagine in evidenza: ©Rouleur
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