Ormai da anni, Enrica Piccoli è riuscita a raggiungere i vertici dello sport che pratica da tutta la vita, il nuoto artistico, ottenendo il massimo grado di riconoscimento, il ruolo di capitana della nazionale italiana. Eppure, dietro quell’atleta concentrata, dedita al lavoro, legata all’acqua, vi è molto di più: la semplicità.
La ospito a casa, facciamo qualche chiacchiera piacevole e subito mi metto sulla difensiva: questa è la mia prima intervista, che non si aspetti certo la professionalità trovata in altre testate giornalistiche. E difatti, questa non è la classica intervista tecnica, ma qualcosa di diverso che punta a far emergere le caratteristiche della persona Enrica Piccoli, tra nuoto e vita vissuta.
Forse la spavento un po’ iniziando ad elencarle tutti i successi della sua vita – Gwangju, Budapest, Roma ecc. – e le due partecipazioni alle Olimpiadi a Tokyo e a Parigi. Ma il mio obiettivo è un altro.
Nonostante tutte queste partecipazioni importantissime, tra gioie e momenti di difficoltà, sei sempre rimasta solare, appartata, forse equilibrata è la parola giusta. Enrica, quanto è difficile mantenerlo, un equilibrio, in questo dualismo tra vita sportiva e vita privata?
Per le persone del mio paese sono sempre stata così, quella che saltava scuola per i collegiali. Ho sempre saputo di avere valore come atleta: non è mai stato facile scindere un fallimento sportivo dalla mia vita privata, ma è doveroso farlo. Sono grata della mia carriera, mi ha formata, ma so anche di avere un valore come persona e cerco di mantenerlo. Si tratta di un equilibrio che ho trovato soprattutto dopo l’Olimpiade di Parigi, che si è dimostrata essere particolarmente incentrata sull’atleta singolo, anche a seguito delle molte polemiche: c’è stata una svolta, un ascolto del singolo atleta, che ha un percorso della durata di quattro anni.
Prima hai accennato alla scuola: hai dato sempre molta importanza allo studio, sei quasi laureata in Scienze dell’amministrazione e sicurezza. Coniugare questo aspetto con lo sport quanto è complesso?
Per me sono stati più complessi gli anni della scuola superiore. L’Università è più gestibile, mi manca solo un esame e ovviamente è anche quello più complesso. Alle superiori c’erano scadenze molto più restrittive, mi sono sempre imposta di stare al passo con gli altri, che però non avevano tutti i miei impegni: non ti nego che vi sono state settimane nella mia vita scolastica in cui sia mentalmente che poi fisicamente ero stanchissima. Non mi è mai piaciuto essere concentrata su una sola cosa: sono consapevole che lo sport sarà solo una parentesi della mia vita.
Non è da tutti in realtà riuscire così bene in ambo le cose, quindi ti faccio i miei complimenti. La scelta dell’Università è un po’ dettata da questa consapevolezza e da questa necessità di metterti in gioco in più fronti?
La prospettiva, rimanendo nella vita sportiva, sarebbe quella di diventare allenatrice, ma non lo vedo come un percorso adatto a me. Voglio essere eclettica, la scelta del mio percorso di studi si lega alle possibilità che mi concede il far parte delle Fiamme Oro. Più il tempo passa, più la mia volontà è quella di variare, di cambiare. Sono stata anche molto fortunata perché i miei genitori mi hanno sempre lasciata libera di prendere le mie scelte personali. Non ho mai avuto un sogno da conquistare, non ho mai nemmeno pensato di voler giungere alle Olimpiadi: ho cercato di coltivare e fare quel che mi piaceva, i risultati sono arrivati. Tante mie compagne si sono trovate in difficoltà, magari sono anche entrate in crisi con loro stesse, e sempre durante le scuole superiori. I sacrifici sono tanti: guardi gli altri che escono a prendere un gelato e tu sei consapevole di non poterlo fare perché ti devi allenare. Sono consapevole che, per questo, non ho potuto stare vicina in alcuni casi, nel bene e nel male, ad amici o parenti in situazioni determinate, ma è importante mettere tutto sulla bilancia: se la gratificazione personale tiene viva la volontà di continuare, allora si può essere in grado di farlo.
Le rinunce quindi non si contano nemmeno, immagino.
Tantissime, soprattutto per la vita sociale. Dipende anche dalla società sportiva in cui ti formi: in nazionale sono l’unica che proviene da Montebelluna, i collegiali si tengono sempre o a Roma o a Savona, ma non sono strutturati in maniera tale da poter organizzare un vero e proprio trasferimento come farebbe un qualsiasi fuori sede. In quelle tre o quattro settimane si sta sempre con il gruppo, si nuota, ci si svaga poco. Mi è mancata la banalità dello spritz dopo lezione, per capirsi. È un’età in cui si cresce, è l’adolescenza, essere distanti dal posto in cui si è nati non è semplice.
Quindi, da questo punto di vista, il gruppo che si crea a nuoto quanto è rilevante?
Molto, ma solo nel momento in cui la motivazione è comune. Lo svago deve esserci, ma non deve essere preponderante.
Qui emerge il capitano: il tuo ruolo è anche quello di formarlo, tenerlo unito.
Esatto. Per molti anni sono stata la più piccola, abbastanza precoce nelle tappe: mi sono resa conto di star allenandomi con persone più adulte di me che avevano un altro approccio allo sport. Non c’era studio, ma molta dedizione. A mio parere, i tempi sono cambiati: studiamo tutte, ho sentito di dovermi approcciare diversamente rispetto alle capitane che ho avuto. Prima di impormi dovevo farmi apprezzare dalle mie compagne, sono più per il “vieni, ti faccio capire dove hai sbagliato o cosa puoi fare meglio”, e questo mi gratifica. Nella media stiamo sette/otto ore al giorno insieme, quindi dobbiamo stare bene.
7/8 ore di allenamento al giorno… guardare il tuo sport da fuori mi fa pensare che sia estremamente difficile, eppure voi lo fate sembrare semplice.
È un po’ quello l’obiettivo. Più sento di star nuotando facilmente, più so di star facendo il mio lavoro bene. Se non si è abbastanza preparati lo si sente, è propriamente doloroso, si rischia di andare in ipossia e il respiro è fondamentale. Poi non è come trattenere il respiro da riposati: qui si è costantemente in movimento, perciò ci si deve allenare sul trattenerlo già da affaticati.
Per me questo è incredibile. E tu hai scalato le gerarchie fino a diventare capitana. Questo ti rende orgogliosa?
Sì. È un ruolo che mi è stato affidato quasi 2 anni fa un po’ a sorpresa, in realtà. Di punto in bianco la precedente capitana, Gemma Galli, ha deciso di ritirarsi, e noi ci siamo trovati in una situazione particolare. Non c’è stata una votazione: gli allenatori hanno visto nella mia figura una persona in grado di mantenere l’ordine. Ero titubante all’inizio, pensavo di essere carente dal punto di vista del carisma, ma l’ho accettato anche per esercitarmici al meglio. In più, nel momento in cui il ruolo mi è stato affidato, sono giunte una serie di ragazze nuove e giovani e ho dovuto quindi rapportarmi anche con loro. Anzi… posso raccontare questa cosa?
Beh, non credo ti serva il mio nullaosta!
Le ragazze avevano un coprifuoco, ma era davvero molto presto! Anche io certamente ho fatto le mie cavolate durante gli anni ai collegiali, quindi le posso un po’ capire… insomma, sono state scoperte per essere tornate più tardi. Non ho fatto i loro nomi, le ho coperte, cercando di far capire loro comunque che le regole sono regole…
Un po’ da sorella maggiore… se posso dire la mia, hai fatto bene!
Già… mi piace molto costruire dei momenti necessari per creare squadra, prima o dopo la gara, facendo giochi che sono divenuti attività quasi di soft skills. Sono modi per parlare, condividere, informarsi sulla vita degli altri.
E approposito di team, quanto è stato importante il rapporto con Beatrice Callegari? Entrambe provenite dalla stessa società, e lei è stata anche tua capitana: era lei la sorella maggiore che ora sei diventata tu?
L’ho sempre guardata con ammirazione e ispirazione; poi sono divenuta sua compagna, sempre vedendo in lei la persona centrata e ambiziosa che volevo diventare. Anche Gemma lo è stato, ma lei ha sempre cercato più di creare gruppo, è sempre stata meno precisa e rigida: ecco, io ho cercato un connubio tra le due, con la bilancia che pende un po’ verso Beatrice.
La società montebellunese, in tutto ciò, quanto è stata importante?
Basti guardare la nazionale: le società più importanti sono quelle di Savona e Roma, siamo solamente in quattro al di fuori di quelle. Tutte le capitane degli ultimi anni, però, sono sempre state al di fuori di quei due contesti. Montebelluna mi ha dato le basi: ho confrontato la mia società con le altre, la presenza e la costanza che mi hanno fatto sentire da dove tutto è partito sono state eccezionali. Ogni difficoltà potevo riportarla a loro, e so che loro mi avrebbero aiutata. Io oggi so valutare quali sono i valori importanti e quali no.
Mi sembra davvero un’ottima cosa, sia dal lato del lavoro che da quello umano. Sono anche questi dettagli che ti hanno permesso di arrivare alle Olimpiadi. Ma dimmi, qual è l’aria che si respira in quel contesto mondiale? A quella di Tokyo c’era anche il Coronavirus, quindi puoi portare la testimonianza di aver vissuto due Olimpiadi molto differenti tra loro.
Sapere di dormire nello stesso villaggio di LeBron James fa effetto, te lo assicuro. Ma ti stupirò: nonostante a Parigi non ci siano state restrizioni il mio cuore lo ha Tokyo, e non solo perché è stata la mia prima Olimpiade. Anche dal punto di vista visivo, Tokyo mi è sembrata più ordinata, il colpo d’occhio che c’era lì era particolarmente suggestivo. C’era il Coronavirus: ho fatto tantissimi tamponi, ogni giorno almeno uno, e l’attesa per il risultato sembrava essere infinita. Se fossi stata positiva avrei dovuto dire addio a tutto e si viveva con quel terrore di toccare le cose, di entrare a contatto con qualcuno che avrebbe potuto stare male. Eppure, nonostante questo, io dico Tokyo: l’esperienza olimpica che abbiamo vissuto lì è stata unica, singolare, spero nessun altro atleta debba più viverla ma la sensazione è stata tanto di stranezza quanto di fascino. La cosa che più mi dispiace di Tokyo è che non potesse esserci pubblico: a Parigi il rumore delle porte che si aprono e del pubblico che acclama è stata la cosa più emozionante in assoluto.
Ansia da prestazione anche per il pubblico?
In gara cerco sempre di tranquillizzarmi: se sono lì in quel momento c’è un motivo, non mi serve mettere più impegno di quello che metto di solito perché so di saper fare le cose che sto per fare, le ho sempre fatte. È un pensiero che mi ha sempre aiutata, la mia strategia per abbassare i battiti. Ovvio che, però, alle Olimpiadi serve più impegno, nonostante il mio sport sia meno al centro delle attenzioni rispetto ad un mondiale di nuoto. Più l’evento è piccolo, più visibilità si ha nel nostro caso.
L’ottavo posto di Parigi ti disturba?
Quelle che sono arrivate prima di noi erano molto forti: non tanto prese singolarmente, quanto invece di gruppo. A fronte del cambio di regolamento hanno a mio parere adottato la strategia giusta, il nuoto artistico sta cambiando velocemente e serviva innovazione, progresso, non andava tralasciata la parte artistica. Credo di poter dire che noi, come gruppo, ci siamo adagiate sul cambio di regolamento, senza prendere in considerazione altre componenti… c’è un po’ di amaro, lo ammetto! Mi brucia sapere che il nostro potenziale non stia venendo valorizzato abbastanza. Non dobbiamo basare le nostre prestazioni sugli errori degli altri, ma dovremmo lavorare per stare sopra di loro a prescindere dai loro errori.
Abbiamo quasi finito… ti chiedo solo come stai. Nel senso, le Olimpiadi sono andate, ti stai rilassando?
Devo dire di sì. Ho fatto un viaggio poco tempo fa in Islanda che è stato utilissimo anche dal punto di vista della scissione delle mie due vite. Sono andata completamente sola in un viaggio organizzato con un gruppo: mi è servito, sia per i luoghi curativi che ho potuto vedere che, soprattutto, per le persone con cui ho viaggiato. Non sapevo se presentarmi a loro e come farlo, se dir loro chi ero. Ho pensato che lo avrebbero visto da soli anche semplicemente andando su Instagram, quindi gliel’ho detto. Dopo un primo entusiasmo per quello che faccio, molti di loro avevano capito che io non ero lì in qualità di capitana della nazionale, ma in qualità di Enrica Piccoli. Devo dire, mi ha fatto molto piacere. In alcune circostanze mi sento etichettata come la sportiva, la capitana della nazionale, ma dietro c’è una persona che vuole essere trattata come una ragazza normale. Non fraintendere: a me fa piacere. Vorrei solamente, ogni tanto, poter andare a prendere uno spritz in tranquillità…
Immagine in evidenza a cura di Giorgia Sapienza
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