Se dello sport non riuscite a cogliere quella dirompente forza emotiva che può turbare fino a scombussolarti le viscere, propria delle più riuscite manifestazioni artistiche, fermatevi subito, questo pezzo non fa per voi. Qui leggerete di un manipolo di mandriani senza il look giusto partiti da lontano per sovvertire l’ordine costituito, dell’immaginario letterario da loro evocato, del cuore che si sfalda all’impatto con una storia di eroi immortali che si riverbera nel presente.
Il mondiale di basket più atteso di sempre, a cinque anni dall’ultimo, vedeva come principali favorite alla vittoria i tradizionali super atleti di team USA, seppur ampiamente rimaneggiati da infortuni e rinunce, i maestri serbi pronti ad approfittarne e la Grecia aggrappata alla divinità Antetokounmpo. Alle loro spalle, pronte ad inserirsi in zona medaglie, i pronostici davano credito soprattutto alla Spagna armata di classe e mentalità vincente, alla Francia imbottita di talento, all’Australia ormai matura e con giocatori di un certo livello NBA. Pressoché nessuno aveva avuto la visione di 12 uomini in camiseta abiceleste pronti a ribaltare il tavolo. Ma non è un caso che questa squadra si presenti al mondo come El Alma.
Nonostante l’Argentina avesse ottenuto l’indipendenza politica dalla Spagna già nel 1816, soltanto negli ultimi decenni del XIX secolo la letteratura argentina ha iniziato realmente a disimpegnarsi da quella iberica. C’è un poema in versi ottonari del 1872 che viene considerato uno dei primi veri capolavori della letteratura argentina, divenuto ormai un classico come lo sono per noi la “Divina Commedia” o “I Promessi Sposi”: è il “Martín Fierro” di José Hernández. Il gaucho della Pampa che ne è protagonista ha combattuto per il proprio paese ed è portatore di valori e qualità come il coraggio, la temerarietà. Un altro Hernández, Sergio, coach della nazionale argentina di basket, in questa coda d’estate si sta godendo il proprio Martín Fierro.
Luis Alberto Scola Balvoa a 39 anni suonati sta spiegando al mondo della pallacanestro qualcosa che non ha ancora un nome e che può essere indicato soltanto puntando il dito verso il capitano della selección argentina. Ha fatto parte di una delle avventure più memorabili e affascinanti della storia dello sport, racchiusa nell’espressione Generación Dorada, che ha significato molto più delle medaglie olimpiche, un oro e un bronzo, e dell’argento mondiale che ha già in bacheca. Sono trascorsi tanti anni, e uno alla volta tutti i compagni di Luisito hanno lasciato, mentre lui restava lì, sotto canestro, come se volesse prima accertarsi che chi sarebbe venuto dopo di loro non disperdesse l’inestimabile patrimonio lasciato in eredità. È questo che ha trasmesso ai suoi nuovi compagni, il senso di ciò che si apprestavano a difendere indossando quella camiseta. La parola leader in questa circostanza è perfino riduttiva, Scola ha contagiato di grandezza una nuova generazione di cestisti. Nell’abbraccio di ieri a finale conquistata, tra i tanti significati, Manu Ginóbili sembrava volergli tributare proprio questo merito: “grazie Luisito, l’anima di quella irripetibile generazione continuerà a scendere in campo anche dopo di noi”.
José Hernández scrisse il “Martín Fierro” per dare risalto ad una tradizione propriamente argentina, anche in contrapposizione ad una tendenza europeista sostenuta da Domingo Faustino Sarmiento, allora Presidente della Repubblica, ma prima scrittore di un’altra opera iconica della letteratura argentina dell’800: il titolo completo sarebbe “Civilización y barbarie en la Pampa argentina”, ma tutti la conoscono come “Facundo”, perché racconta la vita di uno dei primi caudillos della storia del paese latinoamericano dopo l’indipendenza, Facundo Quiroga. Vi dice qualcosa, vero?
Facundo è il nome dell’altro faro della nazionale che ha fatto innamorare tutti e domani si giocherà la finale dei mondiali di basket. Se Scola è l’anima di questa squadra, Campazzo ne guida l’avanguardia visionaria, quella che col genio sopperisce a qualsiasi altra mancanza e gli permette di stare lì dove razionalità vorrebbe non potesse stare. Facundo sembra sempre pronto a cogliere quegli interstizi che per brevi attimi si aprono e collegano dimensioni tra loro lontane, concetto tanto caro ad un altro gigante della letteratura argentina quale è Julio Cortázar. Dietro e al fianco di Scola e Campazzo c’è poi tutto un gruppo di giocatori da non sottovalutare, non più almeno, da Gabriel Deck a Patricio Garino, passando per Luca Vildoza, i due Nicolás, Brussino e Laprovittola, Marcos Delía e Tayavek Gallizi; personaggi usciti da un racconto di Jorge Luis Borges, gauchos dall’espressione fuori dal tempo, coraggiosi, fieri e disposti al sacrificio, capaci al tempo stesso di emozionarsi fino alle lacrime pizzicando le corde di una chitarra e di morire per un duello all’arma bianca dopo un asado. Anche al più grande intellettuale della storia argentina sarebbe di certo piaciuta questa squadra che sembra voler scrivere quel romanzo totale che il Maestro ha sempre sognato, consapevole dell’impossibilità umana di realizzarlo.
A questa storia manca l’ultimo capitolo, una finale che, per non farsi mancare nulla, vedrà l’Argentina di fronte alla Spagna, la nazionale dei Conquistadores dai quali ci si è ormai affrancati. Sarà un’altra sfida epica, il tremendismo argentino contro la regalità spagnola di Marc Gasol e Ricky Rubio, altri due giocatori che con questo mondiale stanno ridefinendo per sempre la loro narrazione.
“Soy argentino, es un sentimiento, no lo puedo parar” recita uno tra i più celebri canti degli splendidi tifosi dell’albiceleste. E sarà questo a contare anche in finale, una volta di più, il sentimento molto prima del risultato, l’anima che si sconquassa e trema di fronte a un concentrato di storie, sport e vita, l’eternità di un’emozione.
Hermoso!!
Gracias! 🙏