Sebbene il suo palmeres non conti alcun titolo iridato, Ronnie Peterson è stato probabilmente l’asso della Formula 1 degli anni 70. Almeno in termini di talento puro.
SuperSwede, così veniva chiamato, fu oggetto di culto degli appassionati, tra cui nientemeno che il Beatles George Harrison che gli dedicò il brano Faster.
Rappresentò forse più di tutti gli altri lo stereotipo di pilota capace di andare anche oltre il mezzo meccanico a disposizione. Per questo motivo era temutissimo dai rivali. Si narra che Niki Lauda andò su tutte le furie quando, durante il suo periodo di convalescenza post Nürbürgring 1976, Enzo Ferrari incaricò il direttore sportivo Daniele Audetto di ingaggiare lo svedese, in caso di non ritorno alle corse dell’austriaco. Molti additarono questa come la principale causa della rottura con la casa di Maranello, culminata con la separazione nel corso del campionato 1977. Peterson era capace di esprimersi al massimo e con una capacità di adattamento unica in ogni condizione e tipologia di pista.
In particolare una: Monza, il tempio della velocità.
Ronnie è stato lo specialista per eccellenza del tracciato brianzolo, che a sua volta ha alimentato la sua leggenda. Purtroppo non sempre nel bene, dato che sarà proprio a Monza che il fato si accanì contro il suo massimo interprete. Quella terribile partenza del 10 settembre 1978 che tanto fece discutere, soprattutto in termini di responsabilità della carambola.
Ma nella memoria degli appassionati sono rimaste impresse le sue grandi carriere italiche che hanno lasciato un segno indelebile sui palmi di quell’asfalto.
Già ai tempi della Formula 3 le sue prestazioni lasciavano intendere che con il Tempio della velocità il rapporto sarebbe stato alquanto particolare. Vinse le edizioni 68 e 69 al volante della Tecno, infliggendo distacchi siderali alla concorrenza. Una performance straordinariamente imbarazzante, visto che il gioco delle scie non favoriva fughe in solitaria in una pista del genere. Peraltro, all’epoca il layout non presentava neppure le chicane. In merito, Gianfranco Pederzani, che insieme al fratello Luciano (artefice della Tecno F.3) aveva seguito le prime gesta del nativo di Orebro, ha rivelato in un intervista concessa alla rivista motorsportiva Autosprint che il motore di Peterson fosse addirittura depotenziato di una decina di cavalli rispetto al normale. Lì si ebbe la prima grande rivelazione di questo futuro campione: i cavalli li aveva sul piede destro, ancor prima che nel motore.
Dopo essere approdato alla massima Formula nel corso della stagione 1970, in forza alla March, rischiò di compiere l’impresa già alla seconda partecipazione del 1971, in quello che fu il Gran Premio della storica vittoria di Peter Gethin su BRM, in volata proprio su Ronnie, ma non solo: i primi 5 classificati (oltre ai primi due, Cevert, Hailwood e Ganley) terminarono la corsa racchiusi in un distacco di meno di un secondo. Probabilmente il finale più mozzafiato di sempre nella storia della categoria.
In quella stagione, la prima interamente disputata, grazie ad una serie di podi e di piazzamenti a punti, il casco blu concluse il mondiale alle spalle del solo Jackie Stewart campione del mondo, a conferma delle sue straordinaria immediatezza nell’adattamento alla massima categoria.
Le gioie a Monza non tarderanno ad arrivare, nel 1973 e nel 1974, al volante della longeva ma sempre vincente Lotus 72. Due vittorie comunque combattute, con Emerson Fittipaldi che fu capace di tenere testa allo scandinavo fino agli ultimi metri, in entrambe le edizioni: nella prima delle quali nelle vesti di compagno di squadra, prima del passaggio vincente in McLaren nella stagione successiva.
Ma la vera perla fu quella del 1976.
In una Monza in visibilio per il ritorno di Lauda dopo il rogo del ‘Ring, andò in scena lo show dello svedese volante, che nel frattempo era tornato in March, trovandosi però una vettura decisamente meno competitiva rispetto alla concorrenza.
In quella giornata c’erano condizioni miste, con una prima parte di gara che avrebbe dovuto svolgersi sull’asciutto, con la pioggia che sarebbe dovuta arrivare entro la fine di essa.
Ronnie si qualificò in ottava casella.
Nel corso del primo giro, fu autore di un avvio sensazionale: alla Variante Ascari, fu già quarto, fino ad arrivare ad agganciare il terzetto di testa composto da Scheckter, Laffite e Depailler. In dieci giri, riuscì ad avere la meglio sul trio portandosi in testa, che non lascerà più nonostante gli attacchi continui di Laffite e di Regazzoni, rientrato pian piano in lotta dopo un inizio in sordina. Neanche la pioggia contrastò la sua marcia, che anzi gli permise di incrementarla e di mettere ancora più in luce il suo straordinario talento. Per la March risultò essere l’ultima vittoria in F1, mentre per Peterson l’ultima affermazione monzese.
La carriera proseguì fino al 1978, anno della potenziale grande occasione alla guida della rivoluzionaria wing car Lotus 79. Non foss’altro che il contratto che firmò al ritorno in Lotus prevedesse le vesti della seconda guida di Mario Andretti, già in forza con il team di Chapman dal 1976. Oltretutto i rapporti con l’eclettico patron della casa inglese arrivarono ai minimi termini. Ciò che poi si verificò in quel già citato 10 settembre, non fu altro che l’epilogo sfortunato di una carriera dalla quale avrebbe meritato molto di più. Ma si sa, la leggenda non si quantifica solo con i titoli. E questo è stato proprio il caso di SuperSwede, il sacerdote del Tempio della velocità. Gone, but not forgotten.
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