Affinché una squadra raggiunga la vetta della Formula 1, è necessaria un’adeguata e lungimirante programmazione. Ma non è scontato che i frutti di tale programmazione possano essere raccolti sin da subito, perché è possibile, per una serie di circostanze a volte non umanamente controllabili, che non arrivino. E’ altrettanto vero che non bastano certo ingenti investimenti, condizione imprescindibile per una presenza, se non vincente, quantomeno duratura nel paddock; ma è altresì necessario che questi vengano accompagnati da un certo livello di competenza.
La doppia vita della Williams e la Walter Wolf Racing
È il caso del Team Williams, che venne alla luce ad opera di Sir Frank e del grande progettista Patrick Head: la squadra di Didcot fu l’esempio di successo precoce per una scuderia, in cui i due predetti fattori si sono combinati a meraviglia.
La squadra britannica per come la intendiamo oggi (purtroppo relegata ai bassifondi dell’attuale gerarchia) nacque nel 1977. Tuttavia quello di Williams era un nome non certo nuovo per la categoria.
Infatti Frank nel 1969 creò la Frank Williams Racing Cars, una scuderia originariamente modesta che partecipava al campionato sostanzialmente comprando vetture di altri team costruttori.
Il team cambiò fisionomia all’arrivo del petroliere canadese Walter Wolf, che acquisì la maggioranza delle quote della scuderia britannica, venendo in contro alle esigenze di Frank di trovare nuovi fondi per garantire la permanenza nel campionato. Inizialmente le vetture corsero sotto il nome di Wolf-Williams, almeno fino al Gran premio di Spagna, momento dal quale il team cominciò a chiamarsi Walter Wolf Racing.
Dopo un’iniziale collaborazione con Williams sostanzialmente non più proprietario del team, ma incaricato di gestire il team in pista, quest’ultimo fu pian piano relegato ai margini dell’organigramma, con la conseguente separazione nel 1977, che rappresentò un anno a dir poco sorprendente per la nuova scuderia canadese, capace di raggiungere, nelle mani del navigatissimo Jody Scheckter, tre vittorie, di cui quella memorabile in Argentina alla gara d’esordio, ed alcuni piazzamenti che portarono il sudafricano a chiudere nella classifica generale alle spalle del solo Lauda che vinse il suo secondo e ultimo mondiale con la Ferrari. Quindi sembrava dover procedere tutto a gonfie vele per la squadra dell’eclettico magnate canadese, se queste erano le premesse.
Ma Frank non era uno avvezzo ad arrendersi.
Portandosi con sé il già citato Patrick Head, anche lui in forza alla Wolf (ma con un ruolo di secondo piano rispetto al capo-ingegneri Harvey Postlethwaite), fondarono la Williams Gran Prix Engineering.
Il contributo del progettista britannico fu decisivo, anche se in parte inaspettato da parte dello stesso Williams, come da lui rivelato nel 1980 in un intervista lasciata nel 1980 alla nota testata motorsportiva Autosprint, il quale non immaginava quali fossero le reali potenzialità del socio.
Abbiamo cominciato dicendo che per raggiungere il successo, non erano sufficienti gli investimenti, ma che era necessario coadiuvarli con la competenza e la genialità. Patrick Head (non da solo, sia chiaro, ma in maniera sicuramente determinante), contribuì a mettere in pratica questa formula. Questo è vero, ma per la Williams era necessario, pure il viceversa di tale formula.
Infatti, dopo un 1977 di rodaggio, in cui la Williams portò in pista una vettura dotata di telaio March, le cose cambiarono nel 1978.
Quella del 1978 non fu soltanto la prima vettura costruita integralmente dal team britannico. Ma fu il vero crocevia economico per la squadra, un aspetto essenziale per contrastare le grandi potenze del momento.
Vento dell’Arabia Saudita: le sponsorizzazioni alla base del successo
Frank, tramite l’intermediazione di Charles Crichton Stuart, ex pilota di successo in F.3, impegnato dal team nel procacciamento di sponsor, fu presentato a uomini forti dell’economia dell’Arabia Saudita, tra cui uno facente parte della compagnia aerea Saudia. Il come sia accaduto tutto questo, probabilmente non è dato saperlo, anche se si narra che tutto sia partito da un incontro del tutto casuale tra Crichton Stuart con un esponente della famiglia reale saudita avvenuto nientemeno che in un night club. Per farla breve, un gran bel colpo di fortuna, che unisce utile e dilettevole.
Proprio la Fly Saudia comincerà non solo a colorare di bianco e verde la vettura, ma anche a coprire di denaro la scuderia, insieme peraltro al consorzio Albilad, sempre dell’area saudita. Contribuì in maniera enorme ad estendere i fondi anche la Leyland, un colosso britannico proprietario di alcuni dei più importanti marchi dell’industria automobilistica britannica.
Quello del 1978 fu un ulteriore anno di assestamento. Fu la stagione dell’esplosione delle wing cars, per mano della rivoluzionaria e stilisticamente perfetta Lotus 79 di Colin Chapman, portata al successo iridato con relativa facilità da Mario Andretti. La 79 fu una vettura che rese drasticamente obsolete le altre concorrenti, che dovettero correre ai ripari, se possibile replicando il concetto aerodinamico introdotto con la Black Beauty, l’effetto suolo del tubo Venturi.
La Ligier, ad esempio produsse il modello JS11, che ebbe successo immediato nelle prime uscite del 1979, tantoché inizialmente era la più accreditata per la vittoria finale. Che invece andò alla Ferrari, che con la 312 T4 fu capace di primeggiare già al suo debutto in Sudafrica, a campionato in corso. Gli uomini di Forghieri dovettero però ad esempio fare i conti con un potenziale difetto funzionale: l’ingombrante motore v12 cilindri boxer non era così funzionale per le canalizzazioni utili sfruttamento dell’effetto suolo. Non fu un caso che la Ferrari optò per una forma della parte anteriore della vettura abbastanza particolare (alcuni esteti l’avevano bollata come ciabatta), con un allungamento delle pance laterali funzionale ad un miglior sfruttamento dell’effetto.
Questo fu un problema che non sussisteva per i piccoli, seppur meno potenti, motori Ford-Cosworth. Di cui era dotata anche la Williams.
La sublimazione dell’effetto suolo, dunque il titolo del 1980
La FW07 ebbe una gestazione iniziale complicata, più che altro per problemi d’affidabilità e di gioventù, perché la vettura di per sé era un missile. Raggiunse il successo con Clay Regazzoni a Silverstone, ma soprattutto quattro vittorie sui sei appuntamenti finali del mondiale con l’australiano Alan Jones, il pilota destinato a chiudere il cerchio della rinascita, questa volta vincente del team di Didcot. Se i piazzamenti finali del 1979 non gli bastarono per centrare l’iride, la gioia arrivò nel 1980.
Con la versione B della FW07, già risultante nel 1979 come la vettura più forte, la Williams partì con un vantaggio tecnico, trovandosi a lottare per il titolo con la Brabham del giovane Nelson Piquet, divenuto prima guida dopo il ritiro di Niki Lauda. Ma lo sforzo del team di Bernie Ecclestone non basterà per placare la fame di Williams e Jones, con quest’ultimo che diverrà iridato a Montreal. La Brabham e Piquet avranno modo di rifarsi nel 1981, ma solo con il campionato piloti, con la Coppa Costruttori bissata dalla Williams, che già la fece sua nell’anno precedente.
E la Walter Wolf Racing? Dopo un 1977 di quel tipo, era ragionevole aspettarsi un ascesa, ma quella stagione fu l’unico acuto del team canadese, tanto che fu protagonista di un netto declino che si concluse con il definitivo abbandono a fine 1979. Proprio l’anno dell’affermazione iridata in Ferrari del loro ex pilota di punta, Jody Scheckter. E un anno prima del trionfo di un team creato da coloro che nel 1977 furono messi in secondo piano. In pratica, i miglior pezzi del team, ebbero fortuna altrove.
È il destino crudele della Formula 1. La programmazione, gli investimenti e la competenza non sono garanzia di successo, ma averceli è sempre meglio. Nel caso della Williams, verrebbe da dire che anche la fortuna gioca sempre un ruolo fondamentale. Una fortuna però meritata, visti i successi futuri, che la renderanno una scuderia iconica, meritevole di un presente degno della sua gloriosa storia.
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