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Classic F1: Fuji 1976, l’atto finale ai piedi del Monte

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Niki Lauda e James Hunt nelle fasi di partenza in Brasile

Un finale da film. Come solo le corse sanno offrire.
Questo è quello che effettivamente è stato il Gran Premio del Giappone del 1976, paradossalmente il più coerente epilogo di un campionato tanto drammatico quanto appassionante. Coerente non nel senso comune del termine, ma in quanto in linea con l’altalena di emozioni sprigionate dalle vicende dell’odisseica annata, tale da essere considerata da molti come la più rappresentativa della storia della Formula 1, oltre che venir poi immortalata dal regista Ron Howard nella nota pellicola Rush.

Hunt-Lauda: due ritratti di vita, e di corse

La rivalità HuntLauda che ha proiettato il 1976 nell’olimpo delle corse, è una delle più significative sotto più punti di vista.
Una rivalità tra personalità praticamente opposte, due modi di concepire la vita completamente diversi. E questo non poteva che riflettersi nel loro approccio alle corse.

Niki Lauda si appresta ad entrare nell’abitacolo

Lauda era riservato, o comunque non estremamente incline alle pubbliche relazioni tipiche di una figura del suo calibro, una personalità assai lontana da quella glamour del pilota anni 70, dato che in realtà neanche a livello estetico si avvicinava ai canoni del “cavaliere” da corsa. Prediligeva l’ordine e il rigore, ed in un certo senso questo si manifestava nel suo essere estremamente focalizzato sulle mansioni di pilota. La sua meticolosità sullo sviluppo della vettura (chiedere a Enzo Ferrari, quando Niki osò alla fine di un test definire una vettura del Commendatore con termini non proprio politically correct, “this car is a s**t“) unita alla sua freddezza in pista saranno destinate a fare scuola. Possiamo dire che l’austriaco ha dato vita al prototipo di quello che deve possedere un pilota che vuole ambire al successo. Senza non considerare che Lauda è stato uno dei primi piloti del paddock a dare importanza alla preparazione fisica, generalmente trascurata dai colleghi.

James Hunt

Tutto questo non era invece il britannico, archetipo del pilota ribelle. Costui era noto per un comportamento particolarmente spavaldo e non poco controverso sia in pista che fuori, tanto che gli valse la reputazione di amante dell’alcol e del sesso. Facendosi un’immagine popolare proprio grazie alla Formula 1, Hunt divenne un vero e proprio playboy dell’epoca.
Un modo di essere che anche in questo caso si riverberò sull’approccio alle corse: seppur dotato di un innegabile talento (come testimoniato dalla sorprendente vittoria a Zandvoort nel 1975 con l’iconica ma piccola Hesketh), gli fu affibbiato il soprannome di “Hunt The Shunt“, un gioco di parole che si riferiva non tanto al suo aspetto estetico, quanto alle numerose vetture tritate nel corso della sua carriera, dovute al suo modo di guidare irruento. A differenza di Niki, noto ai più come “Il Computer“, per le sue straordinarie doti da calcolatore e per il suo modo di guidare esente da errori. Infatti, conscio del fatto che la sua Ferrari in quegli anni era la miglior macchina, sapeva benissimo che per vincere il mondiale non era necessario strafare, essendo bensì sufficiente non commettere errori e portare la macchina al traguardo, privilegiando la consistenza e la costanza di risultati alla spettacolarità e al rischio che a volte era necessario per vincere.
Nonostante le marcate differenze caratteriali, due cose univano Niki e James: la fame di successo e un ottimo rapporto fuori dalla pista. Spesso quando si tratta di lottare per lo stesso obiettivo, è piuttosto difficile che queste due circostanze coincidano, ma la rivalità tra i due sarebbe passata alla storia anche e soprattutto per questo.

L’inizio roboante di Lauda e della Ferrari, poi il rogo del Nurburgring

Nel 1976, Lauda e la Ferrari, freschi campioni del mondo in carica, si presentarono ai nastri di partenza come gli assoluti favoriti. Tra le tante potenziali inseguitrici, fu la McLaren sin dalle prime battute a dimostrarsi la rivale più accreditata della casa di Maranello. Una McLaren che aveva sostituito il bi-campione del mondo Emerson Fittipaldi (che si avventurò nell’esperienza della Copersucar, scuderia della quale era contemporaneamente proprietario, fondata dal fratello Wilson) proprio con James Hunt, uscente dalla Hesketh.
La Ferrari dominò la prima parte del campionato, che fece suoi sei dei primi nove appuntamenti, con cinque affermazioni di Lauda (leader indiscusso della classifica generale) e una del compagno italo-svizzero Clay Regazzoni. La McLaren e Hunt apparvero piuttosto in forma in qualifica, ma in gara pagava dazio alla ben più consistente 312 T2

La 312 T2 del 1976

Pressoché la totalità degli appassionati tende tuttavia ad associare la stagione 1976 ad uno di più drammatici incidenti della storia della Formula 1, che occorse proprio a Niki Lauda al Nurburgring Nordschleife, quando la sua Ferrari sbattè violentemente alla curva Bergwerk, con una perdita di benzina dal serbatoio che fece avvolgere dalle fiamme la 312 T2 con l’austriaco all’interno dell’abitacolo privo del casco scalzatogli nell’impatto. Lauda riuscirà miracolosamente a sopravvivere (grazie anche all’intervento tempestivo dei piloti sopraggiunti, tra cui il nostro Arturo Merzario), nonostante che per le sue condizioni fosse dato per spacciato, tanto da ricevere addirittura l’estrema unzione. L’intervento chirurgico fu fisicamente devastante, e Niki rimase sfigurato in volto, oltre ad aver subito altri gravi danni, specie ai polmoni a causa dell’ingestione di fumo durante il rogo. Pareva essere la fine non solo del campionato, ma anche della carriera di Lauda, tant’è che il direttore sportivo della Ferrari Daniele Audetto, incaricato dal Drake, cercò un sostituto, tra i quali figurava il nome di Ronnie Peterson, il pilota che Niki temeva più di tutti. Il passaggio dello svedese alla corte di Maranello verrà bloccato dallo stesso Lauda non appena cominciò a riprendersi, e sarà questo uno dei punti di rottura tra lui e la Ferrari, che culminerà con il divorzio definitivo a fine 1977 (addirittura a campionato in corso, solo dopo la matematica certezza della conquista dell’iride).
A questo punto la domanda che si ponevano tutti era solo una: quando sarebbe tornato?

James Hunt al Nurburgring, il crocevia del campionato 1976

Intanto l’importante vantaggio di Lauda in classifica cominciò naturalmente a sgretolarsi, con Hunt che naturalmente approfittò dell’assenza dell’austriaco dalle corse per tentare di dare l’assalto alla leadership del campionato.
Cosa che naturalmente gli riuscirà. Nonostante l’eroico ritorno del ferrarista ad appena 42 giorni dall’incidente al Gran Premio di Monza (malgrado le sue condizioni, però, fossero ancora precarie tanto da render necessaria una modifica del casco, togliendo parte dell’imbottitura, per cercare di limitare le perdite di sangue che si verificavano con lo sfregamento sulle ferite del volto non ancora rimarginate), conclusosi peraltro con un incredibile quarto posto, e anche grazie ad altri preziosi piazzamenti che consentirono a Niki di tenere vive le speranze mondiali, ci si presentò alla vigilia dell’ultimo appuntamento del campionato con appena 3 punti a separare l’encomiabile Lauda dal  comunque meritevole Hunt. In Giappone si assegna il titolo, ai piedi del monte Fuji.

Il ritorno di Lauda a Monza

Fuji, Giappone: l’atto finale

Un frammento della corsa del 1976, con il monte Fuji a fare da spettatore

Fino ad allora, non solo il Giappone non aveva mai ospitato un gran premio di Formula 1, ma il 1976 fu la prima volta in cui il Circus approdò nel continente asiatico. Un evento già di per sé epocale.
Allora si correva nel Fuji Speedway, un circuito originariamente immaginato sulla scorta della configurazione tipica dei superovali stile Indianapolis. Tuttavia il progetto non sarà mai portato a termine per problemi economici, ma grazie all’intervento della Fuji Speedway Corporation, si ebbe una nuova gestione che fece ricominciare l’opera di completamento realizzando un tracciato stradale che comunque inglobasse le parti del circuito intanto già costruite sul base del progetto iniziale. La pista inizia la sua attività nel 1965, ma subirà un ulteriore variazione per ragioni di sicurezza, eliminando le sopraelevate frutto del progetto originario per dar vita a quella configurazione con la quale il tracciato del Fuji entrerà per la prima volta nel campionato di Formula 1.
Il tracciato di per sé era considerato come uno dei più pericolosi pure in condizioni asciutte, figuriamoci in quelle da bagnato.
La domenica un uragano si abbatté sul circuito e le nuvole basse provocavano diversi problemi anche con la visibilità.
Chiaramente cominciarono le grandi manovre dietro le quinte.
I piloti si riunirono, al fine di decretare se fosse necessario correre in una situazione così rischiosa. Chiaramente fu Lauda tra i portavoce dell’annullamento della gara, ed in effetti la maggioranza dei piloti era d’accordo con lui, tra cui si vocifera che lo fosse anche James Hunt, nonostante il titolo in ballo. Quindi c’era un vero e proprio patto tra i piloti per non correre, un patto che ebbe oltretutto un garante di eccezione: Bernie Ecclestone. Il magnate, al tempo patron della Brabham e capo della FOCA (i costruttori inglesi), che si dette un gran bel da fare per l’organizzazione riguardante la vendita dei diritti televisivi della corsa alle emittenti giapponesi, non era contrario all’annullamento, ma propose che i piloti prendessero il via e percorressero pochi giri per poi rientrare ai box, evitando così problemi di inadempienze contrattuali nei confronti degli organizzatori.

La rinuncia di Lauda

Si decise alla fine, di far disputare la gara, con partenza circa un’ora e mezza dopo quanto prefissato, sulla metà dei giri inizialmente previsti, a meno che le condizioni del tempo non fossero migliorate durante la gara.
Nonostante il patto, sulla linea di partenza quasi tutti i costruttori minacciarono di ritorsioni i loro piloti se avessero scelto di fermarsi volontariamente, e così oltre a Lauda gli unici a fermarsi furono Emerson FittipaldiCarlos Pace e Larry Perkins.
Lauda infatti si fermò al secondo giro: Mauro Forghieri, tecnico della Scuderia Ferrari gli propose di dare la colpa ad un problema elettrico, ma Lauda preferì prendersi la responsabilità del ritiro.
Al netto dello story-telling legato al coraggio di Lauda di dire no alla possibilità di vincere il titolo a scapito della propria incolumità, nonostante fosse stato lo stesso Lauda a subire la martoriante esperienza del Nurburgring, questa scelta provocò una spaccatura nella stampa italiana, con qualcuno che osò accusarlo di codardia, in quanto rischiare fa parte della natura del pilota, a prescindere dalle conseguenze. La questione ovviamente è trattata dal film Rush con i caratteri mielosi del romanticismo, del Lauda che non vuole rischiare di nuovo di lasciare per sempre la sua vita e soprattutto i suoi cari: la realtà fu ben altro. Pure Enzo Ferrari, che al contrario di quanto si possa pensare aveva una dose di tirannia non indifferente, non apprezzò particolarmente il fatto di consegnare il titolo nelle mani di Hunt e della McLaren, salvo poi uscire con la seguente dichiarazione: solo lui poteva sapere quali fossero le condizioni della pista, non certo io.

La rinuncia di Lauda e il colloquio con Forghieri immortalati da questa iconica immagine

Al termine della gara, Lauda rilasciò le seguenti dichiarazioni: Quanto è accaduto in Germania non c’entra per nulla nella scelta che ho preso in Giappone. Non ci sono remore psicologiche o condizionamenti, no. Semplicemente ho giudicato che fosse assurdo continuare a correre su quella pista, titolo in palio o meno. È una decisione che avrei preso un anno fa e che ripeterei anche domani. Subito dopo il via, mi sono trovato fra muri di acqua. Sulla pista c’era un velo di liquido tale che la mia vettura pareva galleggiare. È l’effetto “aquaplaning”. Un giro, e non riuscivo più neanche a capire dov’ero. Ho pensato: è una pazzia, è un correre oltre ogni ragionevole rischio. E mi sono fermato. La Ferrari mi paga per guidare una sua macchina, è vero, ed io l’ho dichiarato più volte, ma non mi paga perché mi ammazzi. Non sarebbe neanche nel suo interesse.

Hunt è campione: dal niente al tutto in 5 giri

Ad ogni modo c’era sempre una gara da correre, non era affatto scontato che Hunt riuscisse a raggiungere il quarto posto, ossia il minimo indispensabile per laurearsi campione del mondo.

Nonostante la pioggia fosse cessata nel corso della gara e la pista fosse sensibilmente migliorata, a cinque giri dalla fine ci fu un potenziale colpo di scena: il britannico forò e fu costretto al cambio gomme. Hunt ripartì solo quinto, ma nel corso degli ultimi giri l’inglese superò prima Alan Jones poi Regazzoni. Ci furono polemiche per la scarsa grinta che il ticinese mise nel bloccare Hunt, ma vi era da considerare che Regazzoni era rimasto senza informazioni e che l’esperimento del collegamento radio coi box, effettuato a Fiorano qualche settimana prima, non era stato poi portato in gara. Così Hunt fu campione del mondo per un punto, mentre la gara andò ad Andretti su Lotus.
Al termine della gara l’alfiere McLaren, non sapendo la sua esatta posizione di classifica il pilota inglese protestò contro la sua scuderia per non averlo richiamato prima per cambiare gli pneumatici, convinto di aver perduto il mondiale. Poi Teddy Mayer, il manager della McLaren, alzò tre dita al cielo, per indicargli la posizione raggiunta, e così Hunt si rese conto di aver vinto il titolo.
Jochen Mass, compagno di team di Hunt, descrisse come meglio non poté la stagione 1976 così: C’è stata una sorta di pseudo-intensità intorno alla stagione del 1976, che è rimasta a far parte del carattere della Formula 1. Non è sempre presente, ma la si può creare rendendo le cose più importanti di quello che realmente sono. È questo il business dello spettacolo.

Tommaso Palazzo

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