Vi ricordate la voce flautata e corposa del maestro Adriano de Zan? Le dolci parole del grande Gianni Mura? Le magnifiche immagini dai primi elicotteri di mamma Rai? Il ciclismo ci ha sempre proposto una serie infinita di peculiarità, anche nel settore della comunicazione. Quali sono le caratteristiche e le particolarità della “divulgazione” del nostro caro sport?
Per trovare una risposta degna, quest’oggi, intraprenderemo un piccolo viaggio nel mondo della narrazione ciclistica, cercheremo di narrare e descrivere le storie e i racconti di coloro che, per anni, ci hanno mostrato e narrato le amate corse in bicicletta: scopriremo insieme cosa realmente possa significare raccontare lo sport più duro e bello al mondo.
Il nostro primo interlocutore e cicerone di questo mondo così variegato non può che essere il più grande fotografo che abbia mai “flashato” dinanzi ad un gruppo di ciclisti infangati: ci riferiamo, naturalmente, al grandissimo Roberto Bettini.
Come è nata la magnifica avventura che ha portato alla nascita di un progetto grandioso come quello della vostra agenzia fotografica?
Tutto è nato nel 1974, quando ero un di ragazzino di 14 anni: Gianfranco Soncini, noto fotografo dei dilettanti, abitando nella stessa casa di Milano, mi ha chiesto se volessi seguirlo a vedere una gara di ciclismo.
Da quella domenica, e per tutte le successive, fino al giorno in cui ho ottenuto la patente, andavo con lui a vedere le gare: mi dava la sua Rollei 6 x 6 e mi faceva scattare foto. La prima è venuta bene, poi per qualche volta scattavo quando il corridore mi aveva già superato: le prime volte non era facile. Poi, appena presa la patente, mi faceva andare alle corse che pianificavamo durante la settimana, e anche in qualche gara fuori regione. Riuscivamo così a vedere anche più di dieci gare a settimana.
Dopo il servizio militare, ho iniziato a seguire tutte le gare del calendario nostrano dei dilettanti, in giro per l’Italia, e qualche gara per professionisti, come il Trofeo Laigueglia, qualche tappa del Giro d’Italia e le gare in Lombardia. Sono riuscito anche ad andare per la prima volta ai mondiali, ad Haltenrhein in Svizzera. Mi sono comprato le mie prime macchine fotografiche: una Canon FTP ql e, dopo qualche anno, ho realizzato il sogno di avere, e usare, un Hassalblad 500cm, macchina non adatta a questo sport ma dalle prestazioni incredibili.
Nel 1985 ai mondiali del Montello ho conosciuto Cesare Galimberti dell’Olympia, l’agenzia fotografica più importante in Italia, e, dopo l’arrivo, mi ha chiesto se potessi seguire per loro, in toto, il ciclismo professionistico.
Per me è stato un vero sogno!
Dal 1986, prima alternando anche gare dilettanti poi dedicandomi solo alle gare professionistiche, ho girato un po’ tutte le parti del mondo: ho seguito tre olimpiadi; corse in quattro continenti; e quasi 5000 gare.
Dal 1974 è passato quasi mezzo secolo, come è variato il mondo del ciclismo in questi quarantasette anni?
Ci sono stati diversi cambiamenti importanti, nel ciclismo e nella fotografia, in questi quarant’anni: le stesse “macchine” hanno avuto dei cambiamenti totali. Nel ’86 c’erano le biciclette con ancora con i fili a vista, i pedalini con i laccetti, mentre alcuni arrivavano con i primi attacchi LOOK, i fili nei tubi del manubrio e i primi occhiali. Poi sono arrivati i caschi, il cambio è passato dal canotto al manubrio, e sono arrivati i primi computerini. Infine la rivoluzione di ruote, telai, cambi automatici e misuratori di potenza, fino ad arrivare alle radioline, che ti dicono tutto.
Noi invece fotografavamo con le macchine manuali, alcune anche senza esposimetro, rigorosamente con diapositive e, finita la giornata, inviavamo i rullini a Milano, o in treno o con qualche mezzo di fortuna, e le nostre immagini le vedevamo a fine gara. Poi, col passaggio agli sviluppi delle pellicole nelle sale stampa, scannerizzavamo le foto scelte e, con il computer e la linea a 56 k, inviavamo le foto alla nostra agenzia.
Nel 1998 ho comprato la mia prima macchina digitale dal costo di 22.000.000 di lire con un file da sei mega. Oggi sarebbe ridicolo: i costi delle migliori macchine si aggirano attorno ai 7000€, e la memoria arriva a sessanta mega. In una gara importante degli anni 80 utilizzavi un decina di rulli, pari a 360 fotografie. Adesso, con le Canon che scattano 15 immagini al secondo, tra le sequenze degli arrivi più le varie immagini di giornata, superi tranquillamente i 1000 scatti.
Una fotografia è un’opera d’arte, cosa vi è dietro a tale intreccio di arte, tecnologia e sport?
Purtroppo non tutti sanno che la maggior parte delle foto è studiata e ricercata: si spendono parecchi soldi, tempo, e, molte volte, fortuna. Proprio per questo motivo lottiamo, spesso contro i mulini a vento, perché su ogni foto venga scritto l’autore. Tutti prendono su internet, senza un minimo di riguardo, non sapendo che sulle foto esiste sempre un copyright. Questo è un piccolo sfogo, ma sarebbe bello che tutti lo sapessero.
Delle volte andiamo il giorno prima a guardare la luce, la curva, lo sfondo migliore per creare la nostra foto. Oppure, faccio un esempio, noi fotografi, ormai tutti liberi professionisti, dobbiamo sobbarcarci delle spese per raggiungere, seguire, e lavorare, durante una singola gara. Prendiamo la Paris-Roubaix, ho scelto proprio lei perché quest’anno è la prima volta che la salto, dal 1986. Prima, in macchina, si partiva il sabato, alle 5 della mattina, via verso Compiègne con un viaggio di 10 ore, quasi 1000 chilometri; arrivo nel primo pomeriggio, giusto per la nostra riunione tecnica; il mattino successivo, via alla gara. Uno in moto, in corsa, e l’altro con la vettura, tagliando il percorso per cercare di vedere i corridori più volte possibile, nei posti migliori. In moto, invece, si va diretti al primo tratto di pavé e poi….tutto quello che succede, scatta e porta a casa. Però ci sono sempre le insidie: io qui sono caduto tre volte, e non è bello. Fortunatamente non mi sono mai fatto male ma, in una di queste occasioni, ho rotto due macchine fotografiche, 3 obiettivi, orologio, pantaloni e giacca…e solo paura. Finita la gara si spedisce qualche cosa e poi via verso il ritorno che, molte volte, soprattutto i primi anni, voleva dire arrivare alle 5 del mattino a casa, stremato e stanco.
Con una botta di conti, si spendono oltre 600 €, senza contare le ore di lavoro in gara e davanti al computer, a selezionare e inserire i dati nelle immagini. E queste spese vanno sostenute per ogni grande gara, compresi il Giro d’Italia e il Tour.
Tra le migliaia di magnifici scatti che ha realizzato ve ne è qualcuno che le è rimasto nel cuore?
Fortunatamente le immagini a cui sei affezionato son molte, in tanti anni di lavoro, alcune per motivi legati all’emozione del momento, alcune alla fatica per realizzarle, altre alla fortuna di averle scattate!
Come in tutti i reportage, i momenti che ricordi di più sono quelli al limite del possibile. Vi spiego: una bellissima foto, scattata in una giornata normale, col sole e senza “sofferenze”, passa quasi inosservata. Magari l’hai pensata e, a fatica, sei riuscito a portarla a casa; ma un’immagine di sofferenza, provocata da intemperie o condizioni al limite, vale sempre il doppio e, molte volte, rimane nella “storia”. Quindi, situazioni come il famoso Gavia del 1988, lo sterrato sotto la pioggia al Giro, con Nibali in maglia rosa – anzi marroncina, color fango – o la neve e la fatica delle Tre Cime di Lavaredo e del Terminilo, la Sanremo fermata ultimamente prima del Turchino oppure, all’opposto, i 45° di alcune tappe, corse negli emirati, dove siamo arrivati al limite dello svenimento, sono le foto che più ci ricordiamo e, forse, anche quelle più pubblicate.
L’unica, forse, che mi rimane nel cuore, per il tempo in cui l’ho ricercata e il personaggio che viene ritratto….è quella di Marco Pantani, solo, in un campo di papaveri!!
Tutta la redazione ringrazia Roberto Bettini e l’agenzia Bettiniphoto per la disponibilità e la gentilezza.
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