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Chiedi chi era Gigi Riva

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A dire Luigi Riva da Leggiuno, Varese sembra quasi un’altra persona. Come uno di quei concorrenti dei giochi televisivi che si presentano con nome, cognome e città di provenienza. Lui il nome per esteso forse non l’ha neanche mai usato, se non per i documenti. Lui è, semplicemente, Gigi Riva, il più forte attaccante italiano della storia del calcio. Oppure, Giggiriva. Tutto attaccato e con la doppia “g”, come da tipica pronuncia dei sardi, il popolo che lo ha accolto come una promessa e l’ha restituito al mondo come una certezza, entrata di diritto nella leggenda.

Riva, giovane ragazzotto in forza al Legnano, notato dall’allenatore Sandokan Silvestri e dal direttore Andrea Arrica, arriva a Elmas, l’aeroporto di Cagliari, nel 1963. I caschetti dei Beatles iniziavano a fare capolino nelle classifiche musicali con la loro versione di “Twist and shout” mentre David Lean, sull’onda del successo del suo “Lawrence d’Arabia“, faceva incetta di Premi Oscar, portandosi a casa ben sette Statuine. In Vaticano, si verificava l’avvicendamento al soglio pontificio tra il defunto Papa Roncalli e il neo-eletto Papa Montini, Paolo VI. Era l’anno del sogno lennoniano di un mondo migliore di Martin Luther King e delle lotte di Malcom X e di Nelson Mandela. Noi italiani, invece, ci avvicinavamo al Natale con il cuore colmo di tristezza, piangendo le vittime causate da una frana del Toc precipitata direttamente nel torrente Vajont: duemila morti.

Erano gli Anni ’60. Antonio Segni passava il testimone a Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica. Sembra un’eternità rispetto a oggi.

L’approdo in Sardegna

La Sardegna allora non era ancora la Costa Smeralda, l’Aga Khan; era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione. Dall’aereo, sembrava di andare in Africa. Un aereo che non andava oltre i quattromila metri, viaggi da incubo“, ha raccontato Riva a Gianni Mura, anno 2004.

La storia dell’uomo, com’è giusto che sia, va di pari passo con quella della famiglia. Mamma Edis lavorava in una filanda, arrotondando con piccoli lavori domestici nelle case di chi stava meglio economicamente. Anche papà Ugo era un po’ un tuttofare: prima sarto, poi barbiere, poi ancora operaio in una fonderia, proprio quella fonderia che un giorno del febbraio 1953 gli toglierà la vita a causa di un pezzo staccatosi da un macchinario. Alla fine, alla morte della madre, il ruolo genitoriale l’ha interpretato per un lungo periodo l’ammirevole sorella Fausta.

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Quel burbero ragazzo lombardo ricordava un po’ “Hud il selvaggio”. I sardi non accolsero benissimo questo straniero ancora senza nome arrivato dal Nord a prendersi la numero 11 che era di Tonino Congiu, soprannominato Su Sirboni (il cinghialetto), indiscusso beniamino dell’Amsicora. Gigi Riva cominciò presto ad inserirsi nel contesto di una Sardegna che aveva voglia di aria fresca. Era arrivato un giovane varesotto a cucirsi sul petto i Quattro Mori e a difendere i valori di un popolo che voleva farsi conoscere per quello che era davvero e non per quello che la gente pensava. Successe grazie soprattutto a lui e a quella magica squadra rossoblù guidata da un filosofo sui generis come Manlio Scopigno.

Non a caso un giocoliere della lingua italiana come Gianni Brera l’aveva ribattezzato Rombo di Tuono, uno degli epiteti più noti coniati dalla penna pavese. Forza, agilità, esplosività e prolificità: questo è stato il calciatore Gigi Riva.

Capitolo azzurro

Record su record, prima di tutto con la maglia della Nazionale. Alle 35 reti azzurre segnate tra il ’65 e il ’74 probabilmente non ci arriverà mai più nessuno. Era un altro calcio. Gli unici “contemporanei” ad essersi solo avvicinati sono stati due come Baggio e Del Piero, entrambi fermatisi però a quota 27. Il marchio indelebile, Gigi Riva, l’ha apposto con l’Europeo vinto nel 1968: al timone di quella Nazionale, c’era nientemeno che Ferruccio Valcareggi. Non è certo questa la sede per ripercorrere quello straordinario torneo, concluso da trionfatori nella splendida cornice di un gremito Olimpico romano, acceso dalle torce (con i fogli di giornale!) degli spettatori. Quell’irripetibile doppia finale contro gli jugoslavi, doppia perché allora in caso di pareggio non esisteva ancora un modo, oltre i supplementari, per decretare una squadra vincitrice. Non bastò la rete di Angelo Domenghini nella “prima manche”, servirono prima Rombo di Tuono e poi la buonanima di Pietro Anastasi per portare a casa la Coppa.

L’avventura in azzurro fu tormentata anche dagli infortuni, giusto per rendere più gustoso il successo. Come si dice: per aspera ad astra.

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Per non parlare, poi, di quel Mondiale messicano affrontato da Campione d’Italia. Forse una delle squadre azzurre più forti di sempre che alla fine, però, non riuscì a prevalere sul Brasile migliore, quello dei mitici cinque numeri 10 (Pelé, Tostão, Rivelino, Jairzinho e Gérson). In ogni caso, nessuno potrà mai cancellare dai libri di storia quell’Italia-Germania 4-3 diventato leggenda, con tutti i suoi retroscena e i suoi aneddoti.

La leggenda del Cagliari Campione

Tornando in Sardegna, lo Scudetto del Cagliari 1969-1970 rimane la pietra miliare della carriera di Gigi Riva. Una squadra in cui non voleva neppure andare ma che poi è diventata casa. “Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo. Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m’invitava a cena, quella dell’edicolante, del macellaio, del pastore. Quando giocavamo a Milano, a Torino, c’erano cinque, seimila sardi che arrivavano dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia. Mi dispiace non aver tenuto tutte le loro lettere, ne basterebbe una o due per far capire perché abbiamo amato Cagliari, la Sardegna. Tutti, non solo io. E nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, senza che nessuno ci avesse mai chiesto di fare gruppo. Rappresentavamo tutta l’isola, lo sapevamo e ci piaceva“.

Woodstock, il tramonto dei Beatles e il riverbero delle rivoluzioni sessantottine che continuava a farsi sentire. In tutto ciò, gli italiani del continente stavano scoprendo che la Sardegna non era quella che pensavano. Perché al di là del fatto sportivo, lo Scudetto del Cagliari “rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia”, come scrisse Brera. Un’isola diventata meno isola grazie allo sport, al calcio e alle meraviglie di campioni senza tempo. Come Luigi Riva da Leggiuno, Varese. In arte, Rombo di Tuono.

Immagine in evidenza: © Cagliaripad

Giuseppe Bernardi

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