Le Nostre Storie

Avremo sempre Parigi – Diario di viaggio di un flâneur nella Ville Lumière

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“Chissà come dev’essere vincere una medaglia olimpica”Ogni volta che ci sono i Giochi Olimpici è questa la frase che mi accompagna sin dalla tenera età, precisamente dal 30 settembre 2000, quando, a casa della nonna, nella grande sala da pranzo, non ricordo di preciso a che ora, dalla vecchia televisione posizionata alla destra del caminetto, ho udito le prime parole olimpiche della mia vita: “Si guarda a sinistra, si guarda a destra, e vince l’Italia!”.

La voce, rotta dall’emozione, è quella di Gian Piero Galeazzi dopo l’impresa firmata Antonio Rossi e Beniamino Bonomi nella canoa, specialità K2-1000 metri. Quelle parole, leggendarie, sono rimaste per sempre dentro di me, una reazione intrinseca e spontanea con uno dei primi, veri, ricordi sportivi della mia vita. 

Fino al 2012 però, non ho avuto modo di poter vedere quella gara, battesimo di fuoco olimpico per il piccolo di casa. A pochi giorni dai Giochi di Londra però, internet è corso in mio aiuto e grazie ai consueti algoritmi studiati appositamente per chi sulle piattaforme gratuite divora reperti storici di sport, un po’ per caso, un po’ perché io al destino ci credo, mi è capitata la gara.

Da quel giorno, scoperto chi ha caricato il video, nei momenti di tristezza, o anche solo per caricarmi prima di qualcosa di importante, apro il web, digito le seguenti parole: “Galeazzi Rossi Bonomi Sydney 2000” e mi sciolgo in un pianto irrazionale.

Premesso ciò, le prime Olimpiadi, perché le ho chiamate così finché non sono diventato un addetto ai lavori e ho scoperto invece che l’Olimpiade è il periodo di quattro anni che intercorre tra un’edizione dei Giochi e l’altra, mentre i Giochi Olimpici sono le due settimane o poco più nelle quali si svolgono le competizioni sportive, ho iniziato a seguirle, per bene, a partire da Atene 2004.

È da qui che parte il nostro racconto, vent’anni dopo, ambientato tra il 26 luglio e l’11 agosto 2024 a Parigi. Perché, se non ci fosse stata Atene, oggi, non sarei qui a scrivere questa sorta di diario di viaggio di un flâneur alle prese con la quarta edizione (due estive e due invernali) di lavoro “matto e disperatissimo”, per citare un tale leggermente più conosciuto di me, riguardante la storia e i parallelismi dei Giochi Olimpici.

Ogni volta che inizia un’edizione a cinque cerchi, soprattutto estiva, si sa, l’emozione è tanta e il lavoro, per non farsi trovare impreparati all’evento ed essere sempre sul pezzo, è davvero lungo e ricco di insidie a partire dal giochino che piace a tutti: le previsioni di medaglia.

Quello che non tutti sanno però è che ai Giochi Olimpici le medaglie non si possono prevedere, perché è l’unico evento al mondo in cui il favorito numero uno in una gara, in un concorso o in una manifestazione, può clamorosamente cannare (vedi Simone Biles alla trave, Iga Swiatek nel tennis, la Spagna nella pallanuoto maschile e potrei continuare all’infinito), per via di un flusso costante, continuo e imprevedibile che cambia in corsa e si sposta, non si sa come. O forse si, d’altronde “sono le Olimpiadi, bambina”.

Questo flow, per esempio, si muove dal numero uno del ranking di fioretto maschile e campione del mondo in carica, al secolo Tommaso Marini, ad un ragazzo hongkonghese di nome Cheung Ka Long, che si fa vivo solo nella rassegna a cinque cerchi e che, grazie ad episodi a dir poco mistici, possiede due medaglie d’oro olimpiche individuali nella disciplina.

Le medaglie si pesano anche ed è qui che sale in cattedra l’Italia, regina indiscussa di psicodrammi annunciati e miracoli inattesi. Basti pensare che di tutte le medaglie d’oro previste da addetti ai lavori e non, solo tre (su dodici!) hanno rispettato le attese, non si sono fatti schiacciare dalla pressione mediatica e hanno portato a casa il risultato: Ruggero Tita e Caterina Banti, Thomas Ceccon e la squadra femminile di spada.

Tutto il resto è stato una sequenza di emozioni che solo la metà basta, ore di sonno che si contano sulle dita di una mano ogni notte per sedici lunghe giornate, discussioni più o meno animate sulla politica sportiva, sugli atleti non in forma e su quel destino che molto spesso punisce gli autori di un quadriennio pressocché perfetto.

Sono quaranta le storie da raccontare in questa storica spedizione azzurra, al netto dei numeri, la più decorata di sempre, ma per questioni di cuore questo diario si concentrerà su quelle che più mi hanno emozionato, nonostante una lacrima per tutti l’ho versata.

In altre parole, sono cinque i momenti nei quali ho tremato “come una foglia che si arrende sì all’autunno, rivendicando a sé la grazia del volo”.

28 luglio

C’è un’aria strana all’Olympic Aquatics Centre presso la Paris La Défense Arena che aleggia attorno all’ultima finale di giornata, quella dei 100 rana maschili. All’appuntamento che vale una carriera, e anche più, ci arrivano tutti i grandi favoriti della vigilia, dal campione olimpico in carica Adam Peaty agli ultimi tre campioni iridati Nick Fink, Qin Haiyang e Nicolò Martinenghi fino al sempre ostico Arno Kamminga.

Le gare di nuoto sono iniziate da un giorno e mezzo e le polemiche per una piscina “lenta” si sprecano. Quattro dei cinque favoriti sono nelle quattro corsie centrali. Martinenghi, invece, complice una semifinale disputata con il freno a mano tirato è in corsia 7, quella assegnata al sesto tempo sugli otto che prendono parte all’atto conclusivo. Il mantra è semplice, se la gara va su ritmi forsennati (58 basso) Peaty e Haiyang non si battono, se invece si alza di qualche decimo (58 alto/59 basso) Martinenghi ha chance e in una vasca del genere non si sa cosa aspettarsi.

Si parte. Il primo 50 va via su ritmi ottimi per l’azzurro che vira in terza posizione in 27.34, poi la subacquea ed eccoci ai metri decisivi per centrare la gloria eterna. Salgono Peaty e Fink, scende leggermente Haiyang, mentre Martinenghi è più costante di un metronomo: è terzo agli 85 metri ma gli altri due sembrano non averne più mentre Nicolò sale, sale ancora. Eccolo, li ha presi, li passa vanno al tocco… ED È ORO PER MARTINENGHI IN 59.03, ARGENTO EX-AEQUO PER FINK E PEATY IN 59.05. Due centesimi sono serviti al 24enne azzurro per la storia. Grande Slam a 24 anni (Olimpiadi, Mondiali, Europei) e di diritto nella leggenda del nuoto azzurro.

L’emozione di questa gara, vissuta in apnea per quasi 1’ è stata qualcosa di difficilmente spiegabile a parole, ma ci proverò. Per un ex ranista come me che ha fatto anche gare a livello regionale con discreti risultati e che non ha visto dal vivo l’epopea di Domenico Fioravanti, ma solo in seguito, trovarsi a raccontare l’oro olimpico di un italiano nei 100 rana è qualcosa di unico, magico, assurdo, soprattutto perché arrivato nel modo più inaspettato di tutti, da sfavorito, contro chi molto spesso l’ha battuto per pochi centesimi in altre gare. L’urlo “ORO, ORO, ORO” che ho lanciato al tocco è un momento che mai dimenticherò e credetemi, è stato pazzesco. 

30 luglio

Il Grand Palais è la sede delle gare di scherma e il destino ha voluto che alla finale per la medaglia d’oro nella spada a squadre femminile arrivassero la Francia, padrona di casa, e l’Italia, prima nel ranking e vice campione del mondo in carica. Nella storia, per entrambe si tratta della seconda finale olimpica a distanza di ventotto anni, proprio da Francia-Italia che decretò le transalpine come prima compagine di sempre a vincere un oro olimpico nella spada a squadre, entrata nel programma olimpico proprio ad Atlanta nel 1996.

Tutto lascia presagire ad un trionfo, poiché mai nessuna squadra femminile in tutte e tre le armi (fioretto, spada, sciabola) è mai riuscita a trionfare in casa e per la cabala, prima o poi, la maledizione andrà spezzata. Inizia l’assalto e sono subito le francesi ad andare in vantaggio. Dopo 2/3 di gara la situazione è quasi compromessa con la Francia avanti di 4, 19-15. Poi, per il motivo di cui sopra, che gli dei dell’Olimpo decidono a loro piacimento le sorti di una competizione, salgono in cattedra due veterane di lungo corso, entrambe nate negli anni ’80 ed entrambe nello stesso luogo: Udine. La prima, Giulia Rizzi, accorcia sul -1, 21-20 Francia, la seconda, Mara Navarria, mette la freccia. 23-24 Italia e assalto decisivo nelle mani di una ragazza nata a 1.411 km di distanza dalle due, Alberta Santuccio da Catania.

L’ultimo assalto è, letteralmente, drammatico. Santuccio parte bene ma la sua avversaria di turno, Mallo-Breton, argento nella gara individuale, vuole il metallo più pregiato. A 20” dalla fine Francia 29, Italia 28. Sembra finita ma a 12” dalla fine Alberta mette la stoccata più importante della sua vita fino a quel momento. 29 pari e minuto supplementare (una sorta di golden gol, chi mette la stoccata vince e in caso di parità vince chi ha la priorità). 

Naturalmente, priorità Francia.

Si parte. Scorrono i secondi, l’Italia deve mettere la stoccata altrimenti è oro Francia. Colpo doppio, si prosegue. Altro colpo doppio, si continua ancora, 35” alla fine, 34, 33… Santuccio è più rapida, para e risponde, attacco francese fuori, solo luce verde, ITALIA MEDAGLIA D’ORO NELLA SPADA A SQUADRE FEMMINILE, CONTRO LA FRANCIA, AL MINUTO SUPPLEMENTARE, CON PRIORITÀ FRANCESE, AL GRAND PALAIS. Per la prima volta nella storia l’Italia femminile della scherma ottiene un oro olimpico che non sia nel fioretto.

Anche qui, le parole sono addirittura troppo poche per spiegare la portata storica dell’avvenimento. Un’emozione del genere, nello sport simbolo dell’Italia ai Giochi Olimpici, l’ho provata solo al podio del fioretto individuale femminile colorato interamente d’azzurro a Londra 2012, ma questa, signori miei, è la Gioconda della scherma italiana.

5 agosto

Le Palais omnisport de Paris-Bercy, per intenderci dove si svolge il torneo Masters 1000 di tennis, è la sede delle competizioni di ginnastica artistica, una delle 3/4 discipline cardine dei Giochi Olimpici. Sempre per il motivo per cui le medaglie sì, si contano, ma, soprattutto, si pesano, e per una spedizione, vincere un oro in discipline come atletica, nuoto, ginnastica e scherma ha un peso specifico decisamente notevole.

Dopo le qualificazioni tenutesi il 28 luglio (il giorno di Nicolò Martinenghi per Casa Italia), la finale vede protagoniste le solite note. Le americane Simone Biles e Sunisa Lee, la brasiliana Rebeca Andrade e la cinese Zhou Yaqin, accreditate dalla stampa di categoria come le quattro in grado di giocarsi il podio. Ci siamo anche noi però con addirittura due esponenti: Manila Esposito e Alice D’Amato. Per la prima la trave è la specialità preferita, per la seconda, in un’intervista poco più che quattordicenne di sette anni prima, quella che gradisce meno. 

Parte la finale e la prima è la cinese Zhou che chiude in 14.100 sporcando l’esercizio, decisamente migliore in qualificazione, ma è una finale olimpica e sopra il 14 tutto lascia presagire quantomeno al podio. Dopodiché è il turno di Lee. L’americana sbaglia, cade e chiude, mestamente in 13.100. Anche la terza, la brasiliana Soares, cade e dice addio alle possibilità di medaglia. La quarta, che chiude il primo sottogruppo di partenti è l’azzurra Manila Esposito. La diciassettenne chiude un esercizio pulito, senza errori e molto ben eseguito, ma la difficoltà è inferiore e di molto rispetto alla cinese e porta in dote un 14.000 che, nella maggior parte dei casi, significa niente podio. 

Il secondo sottogruppo si apre come il primo, la rumena Maneca-Voinea sbaglia e chiude addirittura in ultima posizione. È il turno di Alice D’Amato. Sa che per il podio “basta” un 14.133. L’esercizio che propone è di un’eleganza spaventosa, senza errori e con un’uscita dalla trave da far tremare i polsi a chi ricorda l’ultima uscita che garantì all’Italia una medaglia d’oro olimpica nella ginnastica, vent’anni prima, ad Atene. Nonostante il livello di difficoltà sotto il 6.000, i giudici la premiano (e vorrei ben vedere, essendo stato l’esercizio migliore in assoluto fino a quel momento) e va davanti alla cinese con un meraviglioso 14.366. È medaglia sicura. Ne mancano solo due, ma sono le più forti: Simone Biles e Rebeca Andrade.

Tocca a Simone. Inizia l’esercizio ma ad un tratto si sbilancia e cade, penalità. 13.100 per lei. È almeno argento per Alice e un amaro quarto posto momentaneo per Manila. Tocca a Rebeca che ha 0.100 in meno rispetto alle azzurre. Buon esercizio ma Alice dovrebbe essere davanti, si gioca le altre medaglie. L’ansia cresce, il verdetto dei giudici non arriva. Eccolo: 13.933, quarta. È medaglia d’oro per Alice D’Amato e medaglia di bronzo per Manila Esposito. Un trionfo, un miracolo, non ci sono parole per descrivere ciò che è successo, solo lacrime di gioia.

Venti anni dopo il “punto esclamativo pervaso da energia e venuto dallo spazio” di nome Igor Cassina, oro nella sbarra ad Atene, un’altra uscita regale, questa volta dalla trave, consegna all’Italia la medaglia d’oro meno attesa dell’intera spedizione. Parafrasando il telecronista dell’epoca: “Lei è Alice D’Amato, signori, e non ce n’è per nessuna”. Alice diventa così la prima ginnasta azzurra ad imporsi in una gara olimpica, riscrivendo, letteralmente, la storia dello sport italiano.

Ogni emozione che mi regala la ginnastica artistica è associata al famoso 2004, ad Atene e alla persona che più di altre mi ha portato nel magico mondo delle fate: mia nonna. È con lei e grazie a lei che ho iniziato a seguire i Giochi, la ginnastica in particolare, ad Atene, perché nelle due settimane più caotiche di ogni anno bisestile a casa sua il televisore doveva essere sintonizzato sulle Olimpiadi. 

Ogni medaglia conquistata, a partire da quel 23 agosto 2004 quando Igor Cassina me la fece abbracciare come solo un bambino di 8 anni e mezzo può fare con la propria nonna, è nostra. Siamo io e lei. E lo saremo per sempre. E oggi che purtroppo non è più qui fra noi e mi manca come un soffio di vento nel caldo torrido del deserto, so che è anche merito suo per questo miracolo sportivo targato fate azzurre.

8 agosto

Allo stadio nautico di Vaires-sur-Marne nel nord di Parigi vanno in scena le competizioni di canottaggio e canoa/kayak, che nella storia hanno regalato tante gioie all’Italia. Ai blocchi di partenza, nella specialità della canoa C2-500 metri ci sono due azzurri: Gabriele Casadei e Carlo Tacchini, qualificati alla finale a 8 imbarcazioni con il quinto tempo totale. Non sono i favoriti per una medaglia. Davanti a loro infatti ci sono i cinesi, gli atleti olimpici neutrali, i tedeschi e gli ungheresi, che a detta di molti dovrebbero giocarsi il podio. Difatti, se l’Italia non ha mai ottenuto un podio nella specialità un motivo ci sarà, o no?

Parte la gara e come prevedibile gli azzurri ai 250 metri sono molto staccati dalla vetta, in settima posizione, nonostante non sia il frangente di gara a loro favorevole, per le medaglie si fa dura. I 250 metri che si sono succeduti, quelli che portano le imbarcazioni al traguardo, hanno qualcosa di mistico per il quale solo chi crede alle divinità dell’aldilà c’è una spiegazione.

Casadei/Tacchini risalgono, pian piano, sono sesti, poi quinti, poi quarti, poi in linea con tutte le imbarcazioni tranne i cinesi, ormai involati verso l’oro. Mancano 50 metri e tutta Italia li sta spingendo ad un risultato tanto storico quanto folle ed insperato alla vigilia. C’è anche Gian Piero Galeazzi insieme a loro a spingerli dal monte Olimpo, c’è Oreste Perri in cabina di commento. Colpo dopo colpo la barca azzurra “è sempre più bella, è bellissima” e al photofinish piazza la zampata decisiva su Spagna e Atleti olimpici neutrali. È argento. È più che un miracolo. È qualcosa che va oltre il reale. È storia. E con la voce rotta dal pianto, tento un urlo che resta in gola e immagino Galeazzi commentare questa gara folle, mentre sono in campagna con la nonna a mangiare le albicocche, ci sono le lire, non esistono i social network e fuori, il mondo, non corre così veloce.

11 agosto

Al Paris Expo Porte de Versailles, teatro dei tornei di pallavolo, va in scena l’ultima finale con in campo l’Italia. Si tratta della finale per la medaglia d’oro del torneo femminile di pallavolo tra Stati Uniti e, appunto, Italia. 

La compagine guidata da Julio Velasco ha già fatto la storia, spingendosi così avanti per la prima volta nella storia olimpica. Basti pensare che, prima del 2024, l’Italvolley femminile non era mai andata oltre i quarti di finale nella competizione e di conseguenza mai a medaglia.

Questa volta però, complice un gruppo affiatatissimo, un capo allenatore e due vice di livello assoluto (Lorenzo Bernardi e Massimo Barbolini), la medaglia è arrivata: è minimo argento, ma in ballo c’è qualcosa di più, c’è la gloria eterna.

Il rapporto tra Italia, pallavolo e Giochi Olimpici non è mai stato idilliaco. Basti pensare che, al maschile, la squadra è la più medagliata di tutte assieme a Brasile, Stati Uniti e la defunta URSS, con sei medaglie ma è l’unica, tra queste, a non essere mai salita sul gradino più alto del podio a cinque cerchi. C’è un evento scatenante che ha portato l’Italia ad irrigidirsi ogni quattro anni ed ha anche una data: 4 agosto 1996. Il famoso match point contro i Paesi Bassi, arrivando da campioni di tutto in carica (Mondiali, Europei, World League, Coppa del Mondo), lasciando le briciole agli avversari. Quel match point non si concretizzò, anzi, poi ci furono 3 punti consecutivi degli olandesi e sì la prima medaglia olimpica di sempre, ma la delusione più cocente per la “Generazione di fenomeni”, marchio registrato.

Da quel giorno, passando per Atene (di nuovo) e Rio, altre due finali perse e negli occhi di mio padre quella sensazione che esultare per l’oro olimpico nella pallavolo sarà un’impresa ardua da raggiungere. 

Come detto, le ragazze, invece, non sono mai nemmeno riuscite ad andare a medaglia. Insomma, il tabù, la maledizione, chiamateli come volete, più brutta e triste della storia olimpica azzurra.

Il primo scoglio per le ragazze è stato superato, la medaglia c’è, ma si vuole andare oltre, perché ci vuole una squadra speciale per infrangere un impedimento così forte.

All’ingresso delle squadre in campo si è visto subito che da un lato c’era una squadra pronta ad azzannare la preda, dall’altro, una compagine che si è resa conto, subito, di trovare di fronte le più forti del mondo. E per una volta, la prima in assoluto, abbiamo goduto noi, come non mai. È MEDAGLIA D’ORO ITALIA, FINALMENTE!

3-0 netto (25-18, 25-20, 25-17 i parziali), 73’ di gioco, un dominio, a detta di molti esperti, visto solo nel 1976 con il grande Giappone di Shigeo Yamada, ma mai nell’epoca moderna, quella del rally point system. 

Quando la palla dell’americana Thompson è caduta fuori, l’esplosione di una Nazione è stata così fragorosa da arrivare in ogni parte del mondo. Il tabù è stato abbattuto, come la resistenza delle americane e la prima immagine che porterò per sempre, oltre all’abbraccio con mio padre, simbolo che tutto può accadere, sarà lo stesso gesto tra due che nel 1996 erano ad Atlanta, uno in panchina e uno in campo, durante quel match point non sfruttato, Julio Velasco e Lorenzo Bernardi (il giocatore più forte del XX secolo). In quell’abbraccio c’è tutto. Ci sono questi 28 anni di sofferenze olimpiche pallavolistiche, ci sono sette edizioni in cui l’unico mantra per i giornalisti del globo intero era mettere pressioni all’Italia, che senza l’oro olimpico non si entra nella leggenda, che non serve avere il movimento più florido al mondo, ma senza quella maledetta medaglia nessuno si ricorderà.

E invece, dall’11 agosto 2024 tutti si ricorderanno dell’Italvolley femminile, di Julio Velasco, di Lorenzo Bernardi, di Massimo Barbolini. Tutti si ricorderanno delle 13 sorelle d’Italia che a Parigi hanno fatto vedere, ancora una volta, che essere italiani è la cosa più bella del mondo.

Au revoir et merci Paris

Adesso che i Giochi della XXXIII Olimpiade estiva sono ormai in archivio, non ci resta che ricordare quando Humphrey Bogart si rivolse ad Ingrid Bergman al tramonto del film Casablanca, dicendo una frase così semplice ma significativa, che è rimasta scolpita per sempre nella memoria collettiva: “Avremo sempre Parigi”. Ed è la realtà, perché la Ville Lumière, più di altri posti, è la città dove l’impensabile accade per davvero, dove tutti possono perdersi lungo i boulevard, tra i Passages Couverts ed essere, almeno per un attimo, al centro della storia.

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V. Giuseppe Greco
Nasco in collina, poi Lettere sul mare, Parigi nel cuore e le Dolomiti nell'anima. Scrivo di sport, di amore, di cinema e di viaggi. Faccio politica.

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