Quando Chris commenta con queste parole il fatto che Tini scenda in campo con tutte e dieci le dita fasciate, e che abbia nell’ultima partita fatto a pugni con un’avversaria: «Forse non è stato un momento di alta sportività, ma ha mostrato che certe cose accadono anche nel basket giocato dalle donne. Perché va bene la grazia e tutto il resto, però anche noi ci incazziamo», l’allenatore Silvio commenta: «D’ora in poi risponderò così a tutti quelli che mi hanno sconsigliato di passare al basket femminile» (p. 167). Una citazione che ben ci può calare subito in medias res dentro le 220 pagine del romanzo sportivo Area Piccola (Marsilio, Venezia, 2023), nel quale la giornalista sportiva Giorgia Bernardini (Catania, 1985) ha saputo mischiare finzione e ricordi della propria frequentazione dell’ambiente cestistico.
Senza voler bruciare la trama al lettore, che rimarrà sicuramente fino all’ultimo attaccato alla narrazione per capire se la protagonista Chris riuscirà o no a coronare i propri sogni di gloria nell’Italia cestistica dei nostri giorni, possiamo isolare alcuni nuclei tematici per i quali Area Piccola può diventare un romanzo interessante anche per gli studiosi di psicologia, di sociologia e di storia dello sport. Le vicende di Chris, delle sue compagne di squadra e di Nazionale, del coach Silvio, infatti, sono anche interessanti oltre i confini della finzione, perché ci possono fornire un bel po’ di spunti e di tracce di ricerca che potrebbero essere proficuamente verificate sul campo. Spunti e tracce accomunati da un primo comun denominatore che già si intravede nella prima citazione appena proposta, ossia: è finito il tempo della «grazia» del passato, ora anche le cestiste si incazzano.
Cestiste del Terzo Millennio, non della vecchia guardia
Si tratta di quella differenza che Cristina Pani, Chris per tutte e tutti, nota nella prime pagine del romanzo, ripensando a quanto ha sentito molte volte raccontare da Nadia, ex cestista, allenatrice e soprattutto madre della sua amica e compagna di squadra Claudia: «Secondo i racconti di Nadia, le giocatrici del passato sembravano ragazze un po’ austere che con fatica, fuori dal campo, dovevano dimostrare di non essere apertamente lesbiche o segretamente innamorate delle compagne di squadra. Chris sapeva che quello era un basket d’altri tempi, di cui non era rimasta traccia né nell’espressione tecnica del gioco né nell’estetica rétro racchiusa in quelle scarpe che solo a vederle ti facevano venire paura di romperti una caviglia. Un paio di volte Nadia le aveva mostrato foto storiche di quando giocava a Vicenza, immagini di donne altissime e con fisici molto distanti da quelli che oggi loro iniziavano a costruire in palestra già in giovane età. Tutte le ragazze dentro quella hall, esattamente come lei, eran state pianificate nel corpo e nella mente sin da piccole, e adesso che avevano tra i sedici e i diciott’anni si portavano addosso la potenza e la classe, pronte a esplodere la prima volta in cui avessero messo piede in un campo della massima serie» (p. 23). Il cambiamento di paradigma e assieme di pratiche (si noti l’accenno alla preparazione muscolare in palestra) porta un cambiamento anche fisico, di postura, che permette a Chris e alle compagne di lasciarsi alle spalle quell’improvvisazione che esse intravedono nelle cestiste della generazione precedente: «Le ragazze della vecchia guardia che Nadia le aveva fatto vedere in foto sembravan sempre improvvisate, come se si fosser trovate per caso con una palla in mano di fronte a un fotografo. I loro corpi talvolta poco tonici, i lunghi capelli sciolti con le frangette fonate prima di uscire di casa e che inevitabilmente andavano a finire dentro gli occhi quando giocavano uno contro uno, facevano venire il dubbio che ci fosse stato un tempo in cui il basket era stato una cosa allo sbaraglio. E invece Chris dava per scontato che lì dentro tutte quelle ragazze la pensassero come lei, che credessero al basket come a una religione; al basket come via, verità e vita» (p. 24).
Il cammino che Chris compie, nelle prime pagine di Area Piccola, è quello che la porta ad essere ammessa in Nazionale giovanile, e quindi nel gotha delle giovani cestiste che contano. Con la finezza psicologica di una scrittrice del 2023, cosciente di questioni di genere, Bernardini descrive così l’impressione suscitata dalla visione delle sue nuove compagne in Chris, una volta giunta al ritiro di Bormio: «Rimasta da sola, Chris si rese conto di essere totalmente affascinata da quelle atlete, dal modo elegante con cui portavano in giro i loro corpi grandi e forti. Finalmente non si sentiva fuori posto con le sue spalle larghe e le cosce muscolose: esisteva un altro modo di essere ragazza rispetto a quello delle sue compagne di classe, esili come giunchi e con gli occhi spenti dalle ore passate sulle versioni di Tacito. Queste ragazze avevano fulmini nelle pupille, e fisici potenti che si mostravano in ogni movimento» (p. 30).
Avere una madre cestista, o no
C’è però una differenza, fra la matricola azzurra Chris e la maggior parte delle sue compagne, che sarebbe interessante sviluppare anche in sede di studio, sociologico o storico, ossia il fatto che moltissime giovani cestiste siano a loro volta figlie di cestiste. A pag. 42 di Area piccola Forti, il coach della Nazionale, ragiona sul fatto che «di queste ragazze che adesso aveva davanti, aveva già allenato qualcuna delle loro madri, o delle loro zie, in accordo con la consuetudine che alla pallacanestro una donna spesso ci arriva per discendenza o vicinanza affettiva con qualcuno che già la pratica, molto più raramente per scelta personale». Chris, allevata dalla madre Viola, professionista affermata sì ma non in ambito sportivo, si sente inevitabilmente diversa: «La classe vera, la classe cristallina, ce l’avevano le altre. Quelle che intorno a lei, in un campo estraneo, si muovevano come se fossero nel salotto di casa. Mentre Chris da piccola era impegnata a osservare Viola al tavolo da lavoro sognando di essere come lei, loro erano già in campo, in un buon numero accompagnate e seguite da un fratello maggiore o da un padre che giocavano da professionisti, o da una madre che era stata una campionessa. Chris non riusciva mai a togliersi dalla testa il pensiero che Claudia rispetto a lei aveva il vantaggio di essere la figlia di una leggenda del basket italiano, e questa cosa non c’era esercizio che potesse pareggiarla» (p. 59). Dettò ciò, Chris, guidata da un’enorme ambizione, viene comunque accettata dalle senatrici della Nazionale, prima di tutto perché è lei stessa a chiederlo alla capitana Silvia e a Tini: «”Voi” disse Chris guardando prima l’una e poi l’altra, “voi mi dovete aiutare”. Eh già, pensò la Capitana. Questa era nuova, e voleva l’aiuto più importante di tutti. Voleva il segreto di lunga vita, voleva che le più anziane le dicessero come avevano fatto a restare lì da quando avevano meno di quattordici anni. Si incontravano ogni tre o quattro mesi, ed erano sempre le stesse. Poi all’improvviso ne compariva una nuova. “La meteora” la chiamavano, perché bastava guardare le scia che si portava dietro che già se ne stava seduta sul treno per tornarsene a casa. Le dinastie si scrivevano presto, già appena dopo la nascita. Gli allenatori le conoscevano fin da bambine, e come si faceva a spiegarlo, questo?» (pp. 66-67).
È così che Silvia e Tini accolgono nella propria cerchia l’affamata Chris. Decidono di aiutarla facendola allenare all’alba, prima che inizi l’allenamento ufficiale con le altre: «Cosa le spingesse a comportarsi come sorelle lei non poteva saperlo; se ci fosse stata dall’inizio, avrebbe saputo che non era la prima ragazza al mondo ad avere paura di raggiungere l’Olimpo, e che anche lei avrebbe imparato a mettere a disposizione di tutte le altre quello che sapeva fare. Ognuna faceva la sua parte per renderla una giocatrice migliore: le sistemavano di un centimetro la punta del piede sulla linea da tre, le facevano rientrare di due millimetri l’angolatura del gomito, la osservavano e ne spezzavano il movimento in piccole frazioni perfettibili, e quando poi, nei giorni a venire, se le era ritrovate in campo, compagne di squadra o avversarie, Chris era già diventata un’altra […]. La squadra aveva individuato la più fragile, quell’oggetto misterioso che era Cristina Pani, e dopo averla accolta, la stava aiutando a raggiungere il livello delle altre» (p. 72). Pagine interessanti che ci raccontano quanto la crescita di una sportiva, in uno sport di squadra, sia dovuto anche a quel surplus che la squadra stessa, e in particolar modo le veterane in quanto mentori, sono capaci di donare a ciascun componente.
Giocare coi maschi
Non ci sono però solo ragazze, in Area piccola. Oltre ai due coach di Nazionale e di club, infatti, Chris si imbatte anche nei ragazzi coi quali le capita di giocare al campetto vicino a casa. Così ad esempio una mattina mamma Viola incrocia la figlia che «ancora ferma sulla soglia, indossava un paio di pantaloncini laminati bordeaux con l’orlo nero lunghi fino al ginocchio e un reggiseno sportivo nero con lo Swoosh bianco. La sua immagine riflessa nel grande specchio all’ingresso riproponeva la guance sconvolte dallo scontro fisico, i palmi neri e bucherellati dalle pietruzze che costellavano il campetto dei ragazzi. Quando giocava contro di loro, non c’era volta che non ne uscisse senza portarsi a casa un graffio sul ginocchio, o un palmo tagliato. Però era per questo che le piaceva competere con loro, perché dopo la fase iniziale in cui la trattavano con sufficienza, quando capivano che era molto più forte di quanto avevano creduto ci mettevano il doppio dell’impegno per non sfigurare. Gliel’avevano detto più di una volta che perdere contro una ragazza era un affronto che non potevano sopportare, e se per umiliarli sarebbe stato necessario rimetterci anche un po’ di sangue, per lei andava bene così. Viola, che non sopportava questo modo di trattarsi, la guardò come se l’avesse vista per la prima volta in vita sua e scosse la testa come a dire che così non andava» (pp. 36-37).
La descrizione di partite miste maschi-femmine è assai rara, nella letteratura sportiva italiana. Soprattutto, il motivo per cui queste pagine di Area piccola diventano preziose è il fatto che tali esperienze di incontro di genere vengono descritte anche in soggettiva, sia dal punto di vista psicologico sia da quello fisico, arrivando persino al lato olfattivo: «L’abitudine ai maschi era più che altro una consuetudine saltuaria che Chris esercitava dentro un campo di basket se a Nadia, dopo certi allenamenti al playground, andava di premiarle. Con loro c’era un rapporto di competizione che le tirava fuori una certa ferocia che con le ragazze non sentiva di provare. Nei rimbalzi sotto canestro si stampava con la schiena e il sedere fino a aderire completamente al petto e alla pancia del giocatore su cui stava difendendo. Il tagliafuori con cui Nadia le aveva insegnato a crearsi un cilindro di spazio nel quale aumentavano le probabilità che la palla, dopo aver rollato sull’anello, cadesse proprio tra le sue mani, era stato la sua prima esperienza di un corpo maschile. Dopo un po’ che giocavano, la pelle dei ragazzi secerneva un odore che la nauseava ma al tempo stesso le dava alla testa, come se sfiorandoli restasse sulla soglia di una stanza in cui sarebbero accadute cose che l’avrebbero fatta vibrare per la paura e la felicità. Se era in partita le accadeva di cercare la mischia in modo ancora più sfacciato, e se sentiva che uno di loro le scivolava dietro la schiena per rubarle una palla senza farsi vedere, si fletteva sulle gambe per incastrarsi nella conca del corpo dell’avversario con più precisione. In quei casi i ragazzi non arretravano mai: affrontavano la cosa con una competizione ancora maggiore, e qualcuno le aveva persino cinto i fianchi con il braccio, prima tirandola a sé con veemenza e poi trattenendola, il petto contro la schiena, anche quando la palla era lontana. In quei casi Chris non chiamava mai il fallo, e anzi abbandonava l’intero peso del suo corpo sui talloni in modo da non poter opporre più alcuna resistenza. Voleva che la sradicassero da terra e le facessero perdere il controllo. In quei momenti le strisce del campo sembravano dileguarsi e restavano solo le mani accaldate, la pelle sudata, i respiri trattenuti nella speranza che nessuno si accorgesse di quello che stavano facendo» (pp. 43-44). Detto ciò, «quelli erano istanti durante i quali da giocatori e giocatrici tornavano a essere ragazzi e ragazze, istanti che duravano frazioni di secondo e che deflagravano quando la palla andava in possesso di una delle due squadre. Allora ricominciava tutto da capo. Cedere il lato destro all’avversario mancino, le parole feroci sussurrate all’orecchio dopo un canestro subito, gli uno contro uno che iniziano inevitabilmente con gli occhi dell’attaccante e del difensore che si incrociano e fanno corto circuito» (p. 44). Non bisogna illudersi che quell’incontro sul campo debba di per sé dare il la ad un altro tipo di incontro, anzi: «Quando alla fine di una partita punto a punto uno di loro andò da lei e le chiese il numero con il pretesto di offrirle un paio d’ore di esercizi specifici sul primo palleggio incrociato seguito da arresto e tiro, Chris guardò per un po’ la mano del rgaazzo che rimaneva sollevata mentre aspettava che lei gli desse il cinque, e poi spostò lo sguardo dalla mano al suo volto. “Sei forte per essere una ragazza” disse lui. Era sospeso tra l’incertezza e l’esaltazione, come un cacciatore che sta per premere il grilletto. “E allora perché mi vuoi vedere per spiegarmi l’arresto e tiro?” “Mi sembra una buona idea in generale rivedersi, e poi così poi ti posso insegnare un paio di trucchi per diventare ancora più forte”. Lei tirò i lacci delle scarpe guardando da un’altra parte. Forse non lo stava neanche ascoltando. Si alzò di scatto, prese la sua borsa e, allontanandosi dal ragazzo, disse a Claudia che l’avrebbe aspettata vicino all’auto di Nadia» (pp. 44-45). C’è sì un personaggio maschile legato al basket che in Area piccola riuscirà a espugnare la solitudine della campionessa, ma lo farà significativamente portando Chris proprio fuori da quella salda comfort zone che per lei è il campo da gioco.
Il basket è tutto, o no?
Già, perché un ultimo tema che pervade tutto il romanzo è proprio il rischio, la tentazione di far coincidere la propria esistenza con lo sport. Il primo personaggio che ci viene presentato da Bernardini è l’allenatore della Nazionale. Dopo che coach Forti ha fatto un discorso alle proprie giocatrici sul fatto che con l’imminente partita le ragazze si sarebbero giocate la vita intera, Tini dice a Silvia: «Capitana, sono preoccupata per il coach. Mi sembra più fuori del solito. Il discorso di stamattina mi ha un po’ allarmato». Silvia che glossa: «Forti è così da quando lo conosco. Siccome per lui il basket è tutto, crede che debba esserlo per ognuna di noi» (p. 64): un’affermazione tremendamente attuale, descrizione di un delirio di onnipotenza che è l’anticamera di quegli abusi che abbiamo purtroppo sempre di più imparato a conoscere in questi ultimi anni, con l’emersione di molte vicende provenienti dallo sport femminile. In Area piccola, però, troviamo anche giovanissime cestiste che, al posto di subire passivamente la pressione del coach, ne parlano liberamente fra di loro. Silvia, ad esempio, non condivide il tono allarmato della compagna di squadra, e risponde così a Tini: «A me invece fa tenerezza. Credo che non abbia molto altro a parte i suoi schemi [..]. È come se tornasse in vita solo quando ci alleniamo […], ma io non capisco come si fa. Una volta volevo entrare nella sua stanza di notte. Ci scommetto che dorme abbracciando una palla, e gira voce che non ha nemmeno una moglie» (p. 65). Avendo imparato a relativizzare il potere dell’allenatore maschio, tutto quanto basato sulla paura e sul controllo dell’ambizione della singola giocatrice, Silvia prova a consolare Chris e a condividere con lei quanto ha scoperto, ossia che il re è nudo: «La Capitana la strinse tra le braccia e le diede un bacio sulla fronte. Ne aveva viste molte così. Spaventate dalla reverenza verso un uomo che rappresenta la maglia azzurra. Loro, al contrario, non lo prendevano più sul serio quando si faceva così greve. Eppure lei aveva cercato di dirle che non c’era proprio niente da riverire in un uomo anziano che probabilmente dormiva abbracciando la palla al posto di una donna. Silvia amava il basket, e come poteva essere altrimenti se ci passava le ore dentro il campo? A lei però il basket piaceva perché faceva ridere, era divertente. Non piangeva nemmeno quando finiva per farsi male. E quelli che lo prendevano troppo sul serio o ci diventavano cattivi non è che la entusiasmassero più di tanto» (p. 66).
Il motivo principale di frizione con le compagne di gioco è proprio questo: Chris vive di basket, vuole vivere di basket, e non capisce come Claudia, Silvia e le altre non condividano il suo pensiero, né le sue aspirazioni totalizzanti. L’amica di lunga data Claudia, ad esempio, commenta così la cameretta di Chris: «”Sembra la stanza di una psicocopatica del basket” disse guardandosi intorno. Sul letto di Chris c’era un peluche a forma di mucca che indossava una canotta dei Roosters Varese di cinque taglie più grandi. “E non è che per giocare a basket si debba per forza essere ossessionate dal basket” disse. “Io per esempio non lo sono”. “Tu hai altre ossessioni”. Chris andò alla finestra e poggiò i gomiti sul davanzale. “Solo che le tue fisse sono, come dire… Da femmina, quindi per gli altri vanno bene”» (p. 93). Lungi dal farlo rimanere un pensiero personale che la scava dall’interno, ad un certo punto Chris decide di esporsi, e di parlare di questo tema con le compagne, scatenando un interessante dialogo fra giovani sportive che sanno benissimo che, a differenza dei coetanei impegnati nel calcio, il basket non potrà realisticamente essere la loro professione. Alessandra, ad esempio, dichiara: «[…] è chiaro che se voglio diventare qualcuno nella vita devo fare dei sacrifici. È che già un paio di volte mi sono presentata ad uno shooting e mi hanno rimandato a casa perché avevo un occhio nero o un livido sulla coscia. Ma che devo fare? Sotto canestro non è un posto da ragazzina perbene. E i gomiti sono appuntiti, soprattutto quando ti prendono in piena faccia». Chris ribatte: «Io, se avessi come voi la certezza di essere in Nazionale, non potrei fare altro […]. Né mi interesserebbe altro. Non è che forse il basket non vi piace abbastanza?» Alessandra si arrabbia, e le risponde: «Non è che mi prendo delle gomitate in faccia o passo l’estate insieme alle mucche in montagna per una cosa che non mi piace. È che ho la sensazione che non ci sia niente di sicuro. Voglio dire, anche se arriveremo in serie A, non diventeremo mai ricche, e soprattutto non saremo giocatrici per sempre. Tu non ti sei mai chiesta cosa ti succede se domani ti rompi un crociato?» (pp. 82-83). Finita la discussione, Tini riprende poi in separata sede l’ambiziosa amica, dicendole: «Chris, nessuna ragazza vive per stare qui […]. Il basket è solo un gioco in cui vince chi butta la palla dentro il cesto una volta in più degli avversari. È una cosa semplice, sei tu che sei esagerata […] è solo uno stupido gioco, e se pensassi a divertirti ti faresti solo un favore» (pp. 84-85). Ci metterà tutte le duecento e passa pagine di Area piccola a scoprirlo, la giovane Chris, e per farlo dovrà passare attraverso molte esperienze, fuori di sé ma soprattutto dentro di sé, che Bernardini sa descrivere molto bene. Così, ad esempio, dopo i 32 punti segnati in finale, la cestista riflette ful fatto che «aveva assistito ad uno scollamento da se stessa, e per quaranta minuti aveva sentito il sollievo di avere il diritto di essere amata. Doveva essere la versione migliore di se stessa. Doveva» (p. 98). Quel bisogno di amore non ricevuto tornerà più volte, nelle pagine di un romanzo nel quale la pallacanestro coincide con la ricerca personale e non solo meramente sportiva di Chris: «lui non sapeva che il basket la faceva sentire come se finalmente ricevesse quelle cure da tutti, anche da chi non conosceva, e che lei da questo amore incondizionato non sarebbe mai più tornata indietro perché pensava che le fosse dovuto in cambio delle uniche attenzioni che aveva desiderato e che non c’erano state» (p. 191).
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