Italia-Germania 4-3 è cinema, teatro e decine di libri. Oggi sono cinquant’anni esatti da un evento che rimane memorabile anche per chi allora non c’era. Quel 17 giugno 1970, infatti, al triplice fischio dell’arbitro una partita terminava e l’altra, “La partita del secolo”, diveniva eterna. Fu quello il giorno in cui l’Italia scoprì la contagiosa potenza del pathos collettivo che può generare lo sport, la forza magica che spinse tutti a scendere in strada come mai prima era accaduto.
Non c’era nessun appuntamento, nessun luogo di ritrovo prestabilito, soltanto una gioia genuina impossibile da contenere tra le mura di casa, l’adrenalina di un’avventura che sembrò non terminare mai e che straripò dentro le piazze e le fontane di un’Italia finalmente davvero unita per una notte. Questo è il lascito di Italia-Germania 4-3, un’eredità di cui godiamo ancora oggi ogni volta che c’è di mezzo l’azzurro.
L’Azteca
Il 17 giugno del 1970 lo stadio Azteca di Città del Messico esisteva da appena quattro anni, ma aveva già ospitato il torneo olimpico di Messico ‘68, cullato l’atavica disillusione messicana per il bronzo svanito nella finale per il terzo posto col Giappone e visto scoppiare la famigerata “Guerra del Calcio” tra El Salvador e Honduras, raccontata nell’indispensabile opera di Ryszard Kapuściński. Fu necessario far detonare sessantatré chilometri di superficie rocciosa per fare spazio a tutta la sua maestosità, tanto da venire ribattezzato anche il “Colosso di Sant’Ursula”, dal nome del quartiere in cui sorge. L’antica civiltà dalla quale ha preso il suo nome ufficiale adorava diverse divinità e celebrava svariate feste in loro onore, l’Azteca vedrà esprimersi al meglio gli déi del pallone Pelè e Maradona.
Ma la magia iniziò quel 17 giugno di cinquant’anni fa davanti a centomila spettatori. Non poteva esserci palcoscenico migliore per contenere tutta l’epicità che avrebbe sprigionato Italia-Germania 4-3. Il destino lo sapeva e ci mise lo zampino. A Città del Messico, infatti, doveva disputarsi l’altra semifinale, quella tra Brasile e Uruguay. Durante il torneo, però, i verdeoro dei cinque numeri “10” avevano fatto innamorare il pubblico di Guadalajara a tal punto che la città chiese a gran voce di continuare a goderseli allo stadio “Jalisco”. Richiesta accolta.
Il resto è storia e lo trovate ancora oggi recandovi all’Azteca, dove campeggia una targa che omaggia “EL PARTIDO DEL SIGLO”.
I novanta minuti (più Schnellinger)
“Albertosi, Burgnich, Facchetti…” vale “Quel ramo del Lago di Como…”, è l’incipit di un romanzo che aprirà una saga. Calcio d’inizio alle ore 16 di Città del Messico. Più di duemila metri di altitudine e grande caldo, influirà anche questo sull’andamento della gara. I novanta minuti regolamentari sono perfino noiosi per larghi tratti. Dopo soli otto minuti Boninsegna prova a triangolare con Riva, la palla gli ritorna per un rimpallo e Bonimba dal limite dell’area scaglia il suo sinistro all’angolino alla destra di Sepp Maier.
Il vantaggio induce l’Italia di Valcareggi a fare la propria partita di contenimento e ripartenza, mentre i tedeschi provano a scardinare il muro azzurro. La Germania impensierisce un paio di volte Albertosi, ma l’Italia resiste e sembra a un passo dalla finale. Lo spettacolo non è stato indimenticabile, però, allora ci mette un’altra volta lo zampino il fato.
Il novantesimo è già passato da un paio di minuti, e se oggi è normale che si sfori di due o più minuti, allora lo era molto meno. L’arbitro è Arturo Yamasaki. Ha passaporto messicano, quindi gioca in casa, ma in realtà è un peruviano con cognome che tradisce l’appartenenza alla corposa minoranza nipponica nel paese andino, minoranza alla quale appartiene anche Alberto Fujimori, che diverrà presidente del Perù nel 1990.
Yamasaki non fischia e lascia spazio all’ultima preghiera tedesca. Grabowski si fa largo sulla sinistra e mette la palla in area, dove arriva chi proprio non ti aspetti, perché qualcuno ha deciso che quella sarà Italia-Germania 4-3. Karl-Heinz Schnellinger è un terzino tedesco che gioca in Italia già da sette anni e ci rimarrà per altri quattro. Mantova, Roma e, soprattutto, Milan. Con i rossoneri ha vinto la Coppa dei Campioni 1969, ma in 222 gare di Serie A non ha mai fatto gol. Così come non ha mai fatto gol nelle altre 46 presenze con la Germania. L’unico rimarrà quello che ha reso possibile “La partita del secolo”.
Tempi supplementari
Ai tempi supplementari salta tutto. La bilancia emotiva dovrebbe pendere verso Berlino, e infatti Gerd Muller ci mette quattro minuti a dare il benvenuto a Fabrizio Poletti, appena subentrato a Rosato. Il difensore azzurro si addormenta a pochi passi da Albertosi, nulla di più letale se stai giocando contro uno soprannominato “l’uomo dei piccoli gol”. A quel punto si fa fatica a credere che l’Italia possa rimediare. Invece cambia di nuovo tutto in pochissimi minuti.
Prima è un altro gol raro a pareggiare i conti. Tarcisio Burgnich, professione terzino vecchio stampo, si ritrova sul piede il pallone del 2-2 e non sbaglia. Il primo supplementare sta per finire, ma “Rombo di Tuono” non ha ancora lasciato il segno. E che segno! Un gol troppo poco celebrato. Domenghini se ne va sulla sinistra e trova Gigi Riva poco dentro l’area. Tre tocchi tutti di sinistro: uno splendido aggancio al volo, l’esterno per sistemarsi la palla e poi il diagonale sul secondo palo che è il suo marchio di fabbrica.
Il secondo supplementare inizia con “Kaiser” Franz Beckenbauer che ha una vistosa fasciatura, un infortunio alla spalla che lo costringe a giocare col braccio attaccato al corpo. Il destino del match sembra di nuovo definitivamente tinto d’azzurro, ma qualcuno non è d’accordo. È sempre lui, Gerd Muller. Ha già segnato ben 9 gol nel mondiale messicano, ed è pronto per il decimo. Sugli sviluppi di un calcio d’angolo Uwe Seeler svetta di testa. La palla vaga lenta e senza padrone nei pressi dell’area piccola, e quella è giurisdizione di Gerd Muller. A dieci minuti dal termine è 3-3.
Si vede Albertosi rivolgersi in maniera non proprio pacata a Gianni Rivera, reo di essere rimasto sulla linea di porta senza riuscire a fermare il pallone diretto in fondo alla rete. Il fuoriclasse azzurro adesso è aggrappato disperatamente al palo, le parole del suo portiere non devono essere dolci. Il Pallone d’Oro in carica ha vissuto fin lì un mondiale controverso. È diventato protagonista suo malgrado della nascita di quello che da lì in avanti diventerà un grande classico delle estati azzurre: la staffetta. Il CT Ferruccio Valcareggi ha sempre preferito iniziare le partite con Sandrino Mazzola, più avvezzo al sacrificio, per poi sostituirlo con Rivera nella ripresa. Inutile dire che all’estero tutti si sono sempre chiesti perché non tutti e due insieme.
Rivera va verso il centrocampo con le parole di Albertosi ancora nelle orecchie. Racconterà di aver pensato in quei secondi di prendere palla e andare da solo in porta a fare gol. Quando riceve palla, subito dopo la ripresa del gioco, alzando gli occhi ha visto davanti a sé un’orda di tedeschi che lo ha indirizzato verso più miti consigli. Un paio di scambi a centrocampo, la palla che arriva sulla sinistra a Boninsegna, ancora indomito dopo centodieci minuti. Se ne va inarrestabile e mette la palla al centro, dove arriva proprio Rivera. È una delle sequenze iconiche dello sport italiano: il quattordici azzurro che apre il piatto destro e spiazza Sepp Maier, le braccia alzate al cielo e Gigi Riva che gli si aggrappa addosso come pochi secondi prima lo stesso Rivera col palo della porta di Albertosi.
Italia-Germania 4-3
«Che meravigliosa partita spettatori italiani!» dice un sopraffatto Nando Martellini, mentre una voce in sottofondo gli entra in microfono: «Vinciamo! Vinciamo!». La chiosa del telecronista che dodici anni più tardi racconterà anche il secondo Italia-Germania della saga, quello della finale Mundial dell’82, è una sorta di chiamata all’entusiasmo per un paese intero. Da noi erano già le undici di sera al fischio d’inizio, non manca molto alle due quando abbiamo la certezza di essere davvero in finale ai Mondiali, trentadue anni dopo l’ultima volta. Gli italiani sono ancora svegli in piena notte e pronti a manifestare tutta la propria gioia per le vie di un paese che sta cambiando pelle un’altra volta. Caroselli e tricolori come mai prima di allora.
«Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni». Nando Martellini aveva capito subito che non avremmo mai smesso di farlo. A cinquant’anni di distanza possiamo dire che lì nacque la Nazionale come grande rito collettivo, quello che il tempo farà sempre più fatica a scalfire. Oggi si gioca la finale di Coppa Italia senza tifosi a Roma, ma torneremo a essere quelli del 17 giugno 1970, quando diventammo i protagonisti della “Partita del Secolo”, il secolo del calcio.
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