Tra le squadre della Eastern Conference i Detroit Pistons sono quella col più lungo digiuno di vittorie nei playoff: 11 anni. Sebbene abbiano partecipato alla postseason per tre volte in quest’arco di tempo, l’ultimo successo risale al 2008 quando Chauncey Billups e compagni vennero sconfitti 4-2 in una bellissima serie di finale di Conference contro i Boston Celtics poi futuri campioni NBA. Veramente un’epoca fa, per la NBA intera e gli stessi Pistons. Da quel momento in poi, infatti, la franchigia è riuscita, con una regolarità spaventosa, a sbagliare quasi ogni tipo di scelta dirigenziale e tecnica imboccando così un tunnel colmo di mediocrità che ancora oggi sembra non avere fine.
L’innesco al processo di ridimensionamento della franchigia, arriva nel lontano 2008 quando Joe Dumars, President of Basketball Operations, la mente dietro alla squadra campione NBA 2004, scambia proprio Billups con i Denver Nuggets per Allen Iverson. La squadra andrà ai playoff con record negativo (39-43) ma verrà eliminata dalla Cleveland di LeBron in quattro partite. Nell’estate successiva Dumars sceglierà di costruire il roster attorno ai due free agent Ben Gordon e Charlie Villanueva, reduci dalle rispettive migliori stagioni in carriera. Si rivelerà un clamoroso abbaglio e da lì in poi nulla andrà per il verso giusto. I Pistons inizieranno a cambiare un coach dopo l’altro, da Michael Curry a John Kuester, da Lawrence Frank a Maurice Ceeks fino a John Loyer, il quale chiuderà la stagione 2013-2014 da allenatore a interim. In quell’estate Joe Dumars viene sollevato dall’incarico.
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— Detroit Pistons (@DetroitPistons) May 15, 2014
Per la sostituzione Detroit sceglie Stan Van Gundy, il quale diventa anche head coach, e si assume l’onore e l’onere di riportare alla normalità una franchigia andata fuori binario dopo una lunga serie di decisioni discutibili. Detroit però è una squadra costruita in maniera completamente opposta al credo dell’ex allenatore di Orlando, che le tenta tutte per far coesistere il mostro a tre teste Andre Drummond-Greg Monroe-Josh Smith di cui i Pistons sono prigionieri. L’incompatibilità tecnica del trio supera ogni buon proposito di riuscita dell’esperimento, il quale si concluderà presto con l’addio di Smith, giocatore senza capo né coda nella NBA targata ‘pace and space’ che sta prendendo piede. La stagione migliorerà leggermente, ma ad aprile il record reciterà 32 vinte e 50 perse. Niente playoff.
E’ nell’annata successiva dove Van Gundy ha la possibilità di mettere mano con maggior incidenza al roster e i risultati inizieranno a prendere forma. Detroit gioca finalmente il basket predicato dal suo coach e trova, oltre che in Drummond, anche in Reggie Jackson, Marcus Morris e Tobias Harris i propri punti di riferimento. Per la prima volta dal 2008-09, i Pistons chiudono la stagione con un record positivo (44-38) e si presentano alla postseason 2016 con rinnovato entusiasmo. Il 4-0 con cui però Cleveland, di nuovo, li elimina al primo turno non rende giustizia alla competitività mostrata dalla franchigia del Michigan che riesce sempre a tenere il risultato in bilico ma deve arrendersi al talento di LeBron James e Kyrie Irving.
Proprio quando è il momento di edificare sulla buona base della stagione precedente, Detroit però si blocca. Nessuno dei giocatori protagonisti un anno prima compie un salto di qualità tale da garantire il consolidamento fra le prime otto della Eastern Conference e i Pistons rimangono impantanati nel più classico dei ‘vorrei ma non posso’. La stagione 2016-17 va in archivio in maniera anonima e deludente con il record di 37 vinte e 45 perse.
Intanto, la squadra cambia casa e lascia lo storico ma periferico Palace of Auburn Hills, teatro delle partite casalinghe dei Pistons dal 1988 e della vittoria di tre titoli NBA, per trasferirsi in centro città nella nuovissima Leattle Caesars Arena. Si completa così il primo pezzo del puzzle voluto dall’ambizioso proprietario Tom Gores (in carica dal 2011) che aspira a riportare i Pistons ai fasti di un tempo. Ma occorrono prima di tutto giocatori di alto livello, materia prima che nel Michigan scarseggia da parecchi anni. Per porvi rimedio, ecco allora la mossa che non ti aspetti: poco prima della trade deadline del febbraio 2018 i Pistons imbastiscono uno scambio con i Los Angeles Clippers per Blake Griffin. Finalmente Detroit ha la sua stella.
Non basterà per andare subito ai playoff, mancati per l’ottava volta in nove anni, ma l’impatto del figlio dell’Oklahoma sarà positivo. E saprà prolungarsi fino alla stagione 2018-19, prima della quale la franchigia conoscerà l’ennesima rivoluzione nei quadri dirigenziali. Dopo quattro anni con più ombre che luci e dopo aver fatto i conti con le difficoltà nell’immergersi nel doppio ruolo coach/presidente, Stan Van Gundy viene salutato. Detroit si ristruttura in maniera più tradizionale affidando la poltrona di GM all’esperto Ed Stefanski che individua in Dwayne Casey, in uscita da Toronto, il profilo giusto del nuovo allenatore di Detroit.
Con lui Griffin vive un anno da All-Star (24.5 punti, 7.5 rimbalzi e 5.4 assist di media), a cui infatti parteciperà, e indossa i panni del leader tecnico ed emotivo che i Pistons non hanno più avuto dai tempi di Chauncey Billups. Con il record di 41 vinte e 41 perse Detroit stacca il pass per i playoff sebbene anche stavolta in qualità di sparring partner. Milwaukee non ha pietà di una squadra che, fra l’altro, rimpiange l’assenza di Griffin nelle prime due partite della serie per un problema al ginocchio, lo stesso che gli aveva fatto saltare quattro delle ultime sei gare di regular season.
L’infortunio dell’ex Clipper, che condiziona il finale della scorsa stagione e l’inizio di quella attuale (in cui ha giocato solo 17 partite), rappresenta l’ennesima mazzata alle ambizioni della squadra. Attualmente, Detroit naviga a due partite di distanza dall’ottavo posto a Est ma il record recita 12 vinte e 20 perse e sembra ripiombata con puntualità preoccupante nel purgatorio che abita da anni.
Nell’indagare i motivi che si celano dietro a questo perenne vivacchiare senza particolare acuti c’è una costante che accompagna gli ultimi 11 anni della squadra: l’inadeguatezza delle scelte al Draft e la conseguente incapacità di migliorare gli elementi del roster. Tolto infatti Andre Drummond, pescato nel 2012, un ottimo giocatore ma di certo non una superstar in grado di prendersi sulle spalle la squadra, cosa che il tempo ha ormai ufficializzato, la lista di giocatori scelti dai Pistons nel corso degli anni è tutt’altro che indimenticabile. Soprattutto alla luce della quantità di talento su cui la dirigenza, nelle vesti di Joe Dumars prima e Stan Van Gundy poi, ha soprasseduto per poi mangiarsi inevitabilmente le mani. La fotografia è impietosa:
Draft 2010: Detroit sceglie Greg Monroe prima di Gordon Hayward e Paul George.
Draft 2011: Brandon Knight prima di Kemba Walker, Klay Tomphson e Kawhi Leonard.
Draft 2013: Kentavious Caldwell-Pope prima di CJ McCollum e Giannis Antetokoumpo.
Draft 2015: Stanley Johnson prima di Devin Booker, Justise Winslow e Myles Turner.
Draft 2016: Henry Hellenson prima di Caris LeVert e Pascal Siakam.
Draft 2017: Luke Kennard prima di Donovan Mitchell e Bam Adebayo.
In attesa di conoscere l’impatto su un orizzonte medio-lungo di Bruce Brown, guardia dall’impronta difensiva già ben definita, scelta lo scorso anno e Sekou Doumbouya, 19 enne australiano chiamato il giugno scorso e spedito in G League a farsi le ossa, è evidente come aver “bucato” così tante chiamate al Draft abbia azzerato ogni possibilità di crescita della squadra e costretto i vari allenatori di ieri e oggi a fare leva su un nucleo di giocatori spesso non all’altezza.
Dal giorno dell’insediamento come GM Ed Stefanski si è posto come obiettivo quello di riportare un minimo di ordine e coerenza a livello strategico dopo l’era-Van Gundy. Per questo la fiducia a Casey non dovrebbe venire meno anche di fronte al perdurare dei risultati attuali. Guardando il roster, non sembrano esserci superstar in divenire, e solo la presenza di Griffin e Rose (se sani) può tenere vive le speranze dei Pistons di agganciare il treno playoff.
Non è poi da escludere un intervento drastico, che renderebbe quantomeno chiara la direzione su cui vuole viaggiare Detroit: scambiare Andre Drummond ed, eventualmente, anche Griffin per ripartire da zero. A quel punto, tanto varrebbe toccare il fondo e liberarsi per sempre da quella forma di equilibrismo disperato con cui la franchigia convive da troppi anni.
Immagine in evidenza: © Detroit Pistons, Twitter
Un buon articolo, mi piace.