Ci sono posti nel mondo dove il legame che unisce una città alla sua squadra è indissolubile tanto da domandarsi se per quelle persone esista qualcosa all’infuori del calcio e della squadra che li rappresenta. Questo succede a Madrid, dove i tifosi del Real pretendono sempre i migliori risultati dalla squadra; succede a Glasgow dove le due squadre sono espressione delle due religioni principali della Scozia; succede a Buenos Aires dove i tifosi sono caratterizzati da diversi ceti sociali; e succede nella più singolare città della terra, Bilbao.
Fondata nel 1300 da Diego Lopez V de Haro, la capitale della Biscaglia è sempre stata la città meno spagnola che si possa trovare sotto il cielo iberico. Tanto meglio per i bilbaini, che spagnoli non hanno mai voluto essere.
Te ne accorgi subito appena arrivato in città, superando il Puente de los Príncipes de España, ti sembra quasi di aver sbagliato destinazione. “Ma come? Pensavo di venire in Spagna e mi ritrovo in Irlanda. Pensavo di trovare il sole e le spiagge e invece è pieno di nuvole e montagne”.
Ma pur non avendo né spiagge né sole Bilbao impressiona e attrae con il suo fascino quasi proibito, con il suo volersi nascondere, con l’indecifrabilità della lingua che parlano i suoi abitanti e con uno degli stadi più belli d’Europa (il più bello che ho potuto vedere con i miei occhi, nda). Eppure l’Athletic, non ha sempre giocato a Bilbao, le prime partite dei zurigorriak (biancorossi in basco, nda) si giocavano su un terreno pianeggiante vicino a Las Arenas, nei pressi del porto, perché era lì che arrivavano i marinai inglesi, primi avversari della neonata squadra.
Ma dal 1913 l’Athletic gioca le sue partite interne al San Mamés, che deve il nome al fatto che fu edificato sulla riva del Nervión nel punto dove sorgeva una chiesa dedicata a San Mamete, martire cristiano sbranato dai leoni (i giocatori dell’Athletic Club sono soprannominati leoni, nda).
Fin dal primo giorno per i bilbaini quello è stato più di uno stadio, è stato una cattedrale. La Catedral ha visto passare i campioni che sono stati consegnati alla leggenda del gioco: Pitxitxi, che segnava gol a grappoli, Zarra che faceva impazzire le difese e le gerarchie del regime, Iribar che volava da una parte all’altra della porta come un ángel negro, Goikoetxea che sollevava al cielo la Liga e la Copa del Rey, Guerrero che disegnava calcio come un pittore annoiato e Aduriz che sintetizza perfettamente l’indole di questo popolo.
Ma La Catedral per come la conoscevano i nostri padri, che si ricorderanno di una storica finale di Coppa Uefa giocata contro la Juventus, non esiste più, ha dovuto cedere il posto al nuovo San Mamés. Edificato nel 2013.
Quello che i bilbaini hanno costruito per la loro squadra del cuore, non è uno stadio, è molto molto di più. Si dice che trovandosi in qualsiasi punto di Bilbao si possa raggiungere il San Mamés pur non sapendo minimamente dove si trovi camminando in linea retta, quasi come se La Catedral esercitasse un effetto magnetico. Quando ci si trova davanti a questa calamita, che attrae migliaia di magneti-tifosi da tutta Europa, ci si sente quasi spaventati dall’imponenza della costruzione ideata da Cesar Azkarate ma anche enormemente incuriositi da ciò che il museo e il tour dello stadio possono offrire.
Una volta entrati nello stadio la prima cosa che appare davanti ai nostri occhi è il campo da gioco, con il prato all’inglese, come vuole la buona tradizione dell’Athletic. Dopo qualche passo sotto la curva si entra nella pancia dello stadio per visitare le sale stampa e gli spogliatoi dove l’esercito disarmato basco si prepara a sfidare tutto il mondo. Da lì si torna a bordo campo per rendere omaggio a LUI. Lui è Rafael Moreno Aranzadi, in arte Pitxitxi, il più grande cannoniere che Bilbao abbia mai visto. Nato il 23 maggio 1892 nel Casco Viejo, centro storico di Bilbao, Pitxitxi si appassionò fin da piccolo al football tanto da riuscire a entrare nella squadra della sua città nel 1911 ad appena 19 anni. Il piccolino (Pitxitxi in basco significa piccolino, nda) era bravo anzi, era il più bravo e questo suo talento gli valse la convocazione per i Giochi Olimpici di Anversa 1920 (primo giocatore dell’Athletic ad essere convocato in nazionale, nda) dove conquistò un argento. Purtroppo per Pitxitxi la sua carriera, e la sua vita, sarebbero finite molto presto, nel 1922, all’età di 29 anni venne ucciso da una febbre tifoide dopo una cena a base di ostriche. Ma per i bilbaini, è ancora vivo e soggiorna tra le due panchine del San Mamés, aspettando che i capitani delle squadre che giocano per la prima volta alla Catedral vengano ad omaggiarlo con un mazzo di fiori. Salutato Pitxitxi si sale per ammirare la struttura nel suo complesso, dal ristorante del secondo anello si può vedere la splendida idea che ha avuto Azkarate nel realizzare la tribune dello stadio: tribune che si sviluppano come fossero delle onde per dare vivacità ad una struttura che altrimenti sarebbe terribilmente monotona. Dopo una breve camminata tra i box vip che si posso affittare per godersi la partita con tutti i comfort si esce dallo stadio e si entra nel museo.
Il museo dell’Athletic Club offre la sintesi perfetta di ciò che è la squadra per la sua gente e viceversa. Entrando incontriamo un lungo corridoio che sulla sinistra ospita delle teche dove viene raccontata la storia di Bilbao e del Paese Basco ancor prima che dell’Athletic, vecchie paletas per giocare a pelota, una txapela (il tipico cappello che noi chiamiamo basco, nda) e tante altre cose che ci raccontano la storia di questo popolo controverso ma impossibile da non amare. Proseguendo ci si immerge un po’ più nella storia dell’Athletic, la prima sala è dedicata ai trofei: 8 campionati spagnoli, 23 Coppe del Rey e 2 supecoppe di Spagna, oltre ai 2 campionati conquistati dalla formazione femminile e alle varie coppe portate a casa dalle formazioni giovanili.
Accecati dallo sfavillio delle coppe si può proseguire per camminare affianco alla gabbia dove sono conservate le maglie dei giocatori che hanno fatto la storia del club, la più riconoscibile e quella del Txingurri Valverde, i gagliardetti degli avversari e le scarpe che hanno calcato il prato del San Mamés lungo un secolo di storia. Questa è anche la zona che ospita un lunghissimo muro dove sono schierati tutti i giocatori della storia dell’Athletic in posa per una foto di squadra lunga più di 10 metri. Superata questa lunga parete Si possono notare due sale che spiegano, nei dettagli tecnici, la demolizione del vecchio San Mamés e la costruzione del nuovo. Per ultimi, ma solo nel museo, l’Athletic ha voluto lasciare i soci, infatti prima di uscire troviamo una sala con le pareti ricoperte di nomi, ogni nome corrisponde alla tessera di un socio, dalla prima all’ultima tessera si può conoscere l’identità della persone che animano, e animavano, il San Mamés nei giorni della partita.Non si vorrebbe mai uscire dal San Mamés per non abbandonare questo mondo fatto di romanticismo, con poche coppe, conquistare con orgoglio da “11 paesani”. Perché l’Athletic Club non è una squadra di calcio, è l’ultimo baluardo a difesa di un calcio puro, quello fatto di giovani che arrivano in prima squadra, di maglie senza sponsor, di tifosi che conoscono i giocatori che scendono in campo fin da quando sono bambini e di sentimenti anteposti ai guadagni. Quindi si può affermare che l’Athletic è l’unica squadra perfetta perché le altre, come dicono a Bilbao, Dio le ha riempite di stranieri.
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