Calcio

E’ sempre la somma che fa il totale

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I clamorosi risultati dell’Atalanta che per il terzo anno consecutivo frequenta i vertici del calcio italiano, oltre a generare ammirazione e consenso sono accompagnati dai rumori di fondo di vari interrogativi. E’ nutrita infatti la schiera di chi studia le ragioni dietro a un modello vincente che accoglie e fa rendere al massimo chi ne fa parte. E si chiede poi, se e come possa essere replicabile nelle sue figure di dirigenza, allenatore e giocatori anche altrove.

Legittimo, ci mancherebbe; ma è curioso come nel pieno di un percorso ben radicato i dubbi tendano ad aumentare piuttosto che diradarsi di fronte all’evidenza dei risultati sul lungo periodo. Se il secondo anno di Gian Piero Gasperini era la prova d’appello, il terzo attualmente in corso dovrebbe essere Cassazione rispetto alla solidità di ciò che si è costruito a Zingonia: non c’è nulla di episodico e occasionale nel triennio di gestione-Gasp.

Ma nel pieno di un finale di stagione che profuma di Champions League e Coppa Italia, la questione resta sul tavolo e va affrontata. Da un punto di vista tecnico e tattico, l’Atalanta funziona perché Gasperini ha avuto il tempo e la capacità (l’uno strettamente legato all’altra) di costruire un sistema fatto di princìpi di gioco e idee universali. Una condizione che si raggiunge col tempo, di nuovo, alleato fondamentale di ogni allenatore, e un ambiente che crede in quello che si fa, libero dai condizionamenti dei primi risultati. Un contesto, cioè, che non esonera Gasperini dopo cinque giornate e 3 soli punti nel 2016/2017 e viene poi ripagato della scelta con gli interessi.

Dentro a una cultura che non naviga a vista ma programma con coerenza ci guadagnano tutti. Per primi i giocatori che al terzo anno di convivenza conoscono il sistema tanto quanto chi li allena. E “giocano a memoria”, lo slogan appiccicato da molti al brand Atalanta, non perché mandino a ripetizione giocate codificate e rigide ma, al contrario, eseguono situazioni di gioco applicabili ad avversari e momenti della partita diversi. Meccanismi figli di una conoscenza fra chi gioca, questa sì, quasi automatica.

Non deve stupire allora quando i Kessie, Conti, Gagliardini e Cristante del caso, lontano da Bergamo, faticano a trovare un rendimento simile al passato. Nell’indagare i perché non dovrebbe essere messa in discussione al primo colpo la bontà di chi va in campo, ma rendersi conto che quasi sempre a fare la differenza è il contorno. Accettarlo aiuta a capire che i giocatori non sono un blocco monolitico in grado sempre e comunque di esprimersi vicino al proprio potenziale in ogni condizione. Men che meno va rivalutato a posteriori l’ambiente da dove arrivano e iscriverlo alla categoria delle oasi felici, talmente uniche e peculiari da sabotare il valore di chi vi risiede.

Se sono i giocatori a fare il sistema o viceversa è la più classica delle questioni uovo-gallina. E per sua stessa natura non conosce risposta. La materia, peraltro interessante, è inafferrabile proprio perché non esistono criteri oggettivi a cui rifarsi e non è possibile spezzare la mela a metà separando i giocatori da una parte e allenatore con staff tecnico al seguito dall’altra.

Sul motivo per cui Josip Ilicic non è stato il giocatore che è oggi anche alla Fiorentina si può discutere all’infinito. Di certo non si è imbattuto in nessuna pozione magica arrivato a Bergamo e Gasperini non ha imposto le mani e ne ha fatto il fenomeno attuale dal giorno alla notte. Nel suo sviluppo gioca un ruolo l’evidente crescita nel carisma e nella continuità di un giocatore parecchio ondivago in questi aspetti in passato. Così come non è uno scandalo sostenere che senza tutto quello che gli sta attorno (compagni, allenatore, sistema di gioco) probabilmente Ilicic sarebbe più vicino alla sua versione di Firenze che a quella odierna.

La questione vale per lui tanto quanto per Gomez e Zapata, ad esempio, fra i beneficiari più evidenti del lavoro congiunto di dirigenza, squadra e allenatore dell’Atalanta. Il Papu inciderebbe in questo modo sulla manovra di un’altra squadra? Il colombiano segnerebbe in maniera così puntuale (come mai gli è successo prima) anche altrove? Forse sì o forse no.

Porsi il problema non è vietato a patto che giunti a una conclusione questa non passi per legge divina. Il breve regno di Gasperini all’Inter ha lasciato a molti la convinzione che un club di quella storia e di quella portata mediatica non fosse tagliato per l’ex Genoa. La pressione di Milano, Torino (sponda Juventus), Roma e Napoli non è paragonabile a quella di Bergamo, ovvio. Ma nessuno sa davvero se con più tempo a disposizione le cose sarebbero andate diversamente.

Il punto non è sollevare da ogni responsabilità e giudizio l’allenatore o giocatore di turno, ma sforzarsi di capire che vincere è una conseguenza di troppi fattori congiunti per ricondurre trionfi o sconfitte a un solo soggetto. Considerare le parti di una squadra entità staccate da ciò che li circonda è fuorviante, le carica di pressioni eccessive e ne dipinge un’immagine lontanissima dalla realtà: un’idea che sempre di più si fa strada nella mente di chi è chiamato a decidere (presidenti e dirigenti), con le spesso dolorose conseguenze del caso.

L’Atalanta è quella che è proprio in virtù delle condizioni favorevoli che si sono create nella squadra e attorno alla stessa, e non c’è nulla di male nell’ammetterlo. Vale per lei come per ogni singolo gruppo marchiato da un’identità forte e radicata. La sostenibilità di una cultura che da tre anni non ha eguali in Italia è il vero strumento per pesare il lavoro in atto a Bergamo.

Alessio Cattaneo
Appassionato di calcio e basket. Una laurea in Comunicazione Interculturale e un passato nella redazione di Sky Sport 24. Convinto che "se non hai niente da fare e sai scrivere, scrivere è la cosa più bella del mondo".

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