Da quando Pep Guardiola si è seduto sulla panchina del Manchester City non è mancata occasione di chiedere all’ex allenatore di Barcellona e Bayern Monaco cosa servisse agli inglesi per vincere la Champions League. D’altronde quando sei una squadra dal potenziale economico enorme e prendi Guardiola lo fai per importi in Inghilterra, certo (obiettivo già raggiunto fra l’altro) ma principalmente per vincere in Europa.
Il fatto è che anche il più innovatore degli allenatori e uno di quelli con maggior feeling per il massimo torneo continentale per club, pur allenando giocatori forti e di personalità, può arrivare fino a un certo punto. Uscendo dalla retorica per cui i soldi non possono comprare tutto restano comunque i fatti: ovverosia le due eliminazioni del City agli ottavi di finale nel 2016/2017 contro il Monaco e ai quarti contro il Liverpool lo scorso anno.
E’ evidente che per qualità generale e profondità della rosa il Manchester non abbia nulla in meno delle concorrenti europee. Così come esistono sempre anche gli avversari, e l’anno scorso il Liverpool è stato un rivale tosto per chiunque, un po’ meno solo per il Real Madrid in finale. Insomma, il City è uscito in malo modo ma lo ha fatto contro un top team.
Cosa manca allora a questa squadra per arrivare in fondo?
Durante il suo primo anno, nella conferenza stampa post-partita di un Celtic-Manchester City 3-3 del girone di qualificazione Guardiola parlò così: “Non abbiamo storia in Europa, dobbiamo crearcela e costruirla. Ci servirà per il futuro”.
Declinato in varie forme, che si chiami storia o tradizione, che si parli di cultura o mentalità vincente. Di vissuto comune o di passato glorioso, il concetto non cambia. Rimane inafferrabile, quello sì. Perché è qualcosa che si respira nell’aria e si avverte nell’ambiente. Ma c’è. Facendo un viaggio negli Stati Uniti e nell’universo NBA, l’allenatore undici volte campione Phil Jackson lo descriveva riassumendolo semplicemente nella parola “It”. Sta di fatto che per competere al livello più alto, prima ancora che vincere, conta essere abituati a determinati palcoscenici. Essere pronti a uno standard di eccellenza che non fa sconti a nessuno. E’ il costituente di ogni grande squadra e seppur intangibile, appare estremamente evidente quando si manifesta. Così come quando manca.
La Juventus di oggi ce l’ha, ad esempio. Il Milan di Ancelotti l’aveva. Manchester City e Paris Saint-Germain no. Non ancora, almeno.
In quel di Torino partecipare in anni consecutivi alle partite europee più difficili e arrivare due volte in finale ha aiutato l’ambiente (per tradizione poco incline alla musica della Champions, ironia della sorte) a prendere confidenza e fiducia in quantità industriali. Crescere come club e acquistare i migliori calciatori aiuta di certo, ma non garantisce nulla. Anche perché la scintilla si genera fuori dal rettangolo di gioco: nell’humus che circonda chi va in campo. E’ un effetto-cascata che arriva poi ad allenatore e giocatori e non il contrario.
Da Parigi sono passati Ancelotti, Blanc ed Emery. Ognuno ha allenato giocatori fortissimi e di caratura mondiale senza che il PSG abbia mai superato i quarti di finale. Ora è il momento di Tuchel ma ancora una volta non sarà solamente il singolo allenatore o giocatore (Neymar, Mbappé) a cambiare le sorti della squadra.
Quando si guarda allora a superteam come City e PSG e ci si interroga sulle eliminazioni nelle recenti edizioni di Champions, spesso la risposta risiede fuori dai confini tracciati da tecnica e tattica. Appartenere a un diverso livello di mentalità prima ancora che di gioco è ciò che rende possibile il salto di categoria. Da lì si può discutere tutto il resto; che conta eccome ma non è la fetta principale della torta.
Per chi manca di storia e tradizione un cammino ambizioso in Champions League non può essere privo di passi falsi; presto o tardi infatti la disabitudine a certe latitudini presenta il conto e può segnare una stagione. Riuscire a coltivare una cultura e trapiantarla è la chiave per giocarsi le proprie chance di vittoria.
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