Quello degli sport americani è un mondo fantastico, lo sappiamo tutti, che conquista sempre più persone anche nel vecchio continente, un modo che almeno una volta nella vita vale la pena visitare. Poi c’è chi, come Riccardo Pratesi, vive stabilmente negli USA ormai da 4 anni al seguito di NBA, NCAA e NFL da freelence, scrive per la Gazzetta dello Sport, SKY Sport e Buckets; da San Antonio a Minneapolis passando per Sacramento frequentando quotidianamente arene e spogliatoi, faccia a faccia con grandi campioni.
Noi di Vita Sportiva abbiamo avuto la fortuna di poterlo intervistare, parlando della stagione in arrivo e dell’universo sportivo a stelle e strisce!
Nel suo libro 30 su 30 ha parlato spesso di college, è vissuto come una realtà importante, con una rilevanza simile a quella di una franchigia NBA o NFL, cosa li rende così speciali?
“Li rende speciali il senso di appartenenza degli americani alla loro alma mater, o comunque all’università del loro territorio, per cui, se parliamo di football, il sabato tutti con la maglietta indosso: o vanno alla partita oppure, in qualunque parte d’America siano, incollati alla tv a tifare per i propri colori. Se si parla di college basket, le partite casalinghe hanno sempre un’atmosfera pazzesca, che fa molto “comunità” resa straordinaria dalle rivalità statali, poi. Inoltre i giocatori competono per il nome scritto davanti alla maglia, quello dell’università, non quello dietro, il proprio. Non guadagnano soldi, è una forma di competizione, più “pura”, meno (non del tutto) interessata. Mi è capitato di vedere in spogliatoio post sconfitta, specie al Torneo, ragazzi disperati in lacrime. Sono scene non riproducibili in uno spogliatoio NBA, dove comunque c’è il paracadute di un contratto milionario nella testa di ogni campione, anche dopo la sconfitta più complicata da digerire”.
Qual è il giocatore NBA che ha apprezzato di più parlandoci faccia a faccia? E quale invece ti ha maggiormente stupito nel vederlo giocare?
“Il giocatore che ho apprezzato di più parlandoci e osservandolo nella quotidianità della stagione NBA allenamenti/partite è stato Manu Ginobili. Personaggio favoloso, estremamente intelligente, sempre positivo, molto diretto e onesto, un leader cruciale in spogliatoio per i successi Spurs. Anche Duncan e Curry tra le superstar li ho apprezzati in questa doppia veste. Come giocatore mi ha stupito Butler: sapevo fosse forte, un All Star, ma coprendolo da giornalista settimanalmente ho scoperto un giocatore di una costanza di rendimento e ferocia agonistica straordinarie, sui due lati del campo. Molto sottovalutato perchè atleta buono, ma non straordinario, il suo gioco non ha “effetti speciali”. In assoluto quello che impressiona di più ammirato live da bordocampo è Westbrook: fa cose atleticamente inimmaginabili, con una continuità assurda. Uno scherzo della natura, dal punto di vista fisico e dell’intensità”.
Superfluo parlare di favoriti in NBA dove gli Warriors giocano contro sé stessi sulla carta, ma quali potrebbero essere le mine vaganti soprattutto nei Playoff?
“La Western Conference resta sempre insidiosissima, anche se i Warriors per talento fanno categoria a sé. Devono temere più l’eventuale implosione interna, con caratteri combustibili come quelli di Green, Durant e ora Cousins costretti a convivere in uno spogliatoio che le minacce esterne. Houston resta squadra da prendere con le molle, ricordiamoci che l’ultima serie playoff è finita 4-3 per quelli della Baia, che erano sotto 3-2 e che hanno (anche) sfruttato l’infortunio di Paul per rovesciare la situazione. Poi chiaro che un Westbroook o un LeBron se azzeccano la serie in cui sono immarcabili galvanizzano l’ambiente e le rispettive squadre e diventano da non sottovalutare. Nelle eventuali Finals la crescita di Boston, per me prima forza ad Est, va poi tenuta in considerazione, con i rientri di Irving e Hayward e i progressi dei giovani, Tatum, Brown e Rozier in particolare”.
OKC e Toronto riusciranno a trovare compattezza e lottare per l’accesso alle Finals?
“Toronto la immagino come seconda forza ad Est, si darà credo battaglia con Philadelphia come prima antagonista dei Celtics che vedo favoriti con margine, lo stesso nella Conference che hanno i Warriors sulle avversarie. Toronto è migliorata rispetto a 12 mesi fa: Leonard, se sano e motivato, è molto più decisivo di DeRozan a livello playoff. I Raptors sono giustamente andati all in: o adesso o mai più, non ci sono certezze, tutt’altro, sulla permanenza di Kawhi post stagione, ma quel gruppo precedente aveva esaurito il suo potenziale, era destinato a rimanere tra “color che sono sospesi”, meglio provare a rilanciare e, se non funziona, eventualmente ricostruire. A Ovest OKC lotta da terza incomoda, dietro Golden State e Houston, ma dovrà sgomitare parecchio con Utah, Minnesota e i Lakers, in stagione regolare. La chimica di squadra dovrebbe crescere quantomeno tecnicamente senza Melo e il rientro di Roberson aiuterà in difesa; serve che Coach Donovan faccia un salto di qualità”.
Quali sono le differenze tra l’ambiente NBA e NFL? E quale preferisci?
“L’ambiente NFL è amplificato rispetto all‘NBA, il football è il primo sport americano, è tutto più grande, negli Usa. Ho seguito 31 partite NFL live in 22 stadi diversi, questi ultimi, il seguito, la copertura giornalistica, i soldi del business; i giocatori sono meno alti, più facile interfacciarsi….No, a parte gli scherzi, a livello NFL hai solo 8 partite in casa garantite (poi gli eventuali playoff) per cui ogni gara è un enorme evento che fa storia a sé. Nell’NBA hai comunque 41 partite casalinghe, non c’è quell’attenzione spasmodica ogni volta. Come accesso giornalistico è enorme in entrambi i casi, nelle mie 224 partite seguite live da qui di NBA sono sempre andato in spogliatoio prima e dopo la partita, prima di entrambe le squadre, dopo solo di quella dei giocatori che devo intervistare; col football stessa cosa: accesso al campo prepartita e allo spogliatoio post gara. E’ più facile da giornalista avere il polso di una squadra NBA, con meno giocatori da monitorare, comunque”.
Chi sono a tuo pareri i favoriti per la stagione NFL?
“I Rams nella NFC e i Patriots nella AFC in chiave Super Bowl di Atlanta in programma il 3 febbraio. La NFC è un po’ la Western Conference NBA se vogliamo fare un parallelo, per competitività. Ci sono tante squadre di grande livello, e in questo caso le differenze al top sono minime, basta un infortunio per sconvolgere le gerarchie: Philadelphia, Minnesota, New Orleans e Atlanta sono “da corsa”, forse anche Green Bay se Rodgers “tiene” come integrità fisica. La AFC non è allo stesso livello: i Patriots per esperienza si lasciano preferire, e poi, avrà pure 41 anni, ma Brady dietro il centro resta una garanzia di successi…”.
Hai citato Brady, come vedi la stagione dei Patriots e fino a quando continuerà ad essere il loro QB?
“Fino a quando vorrà, immagino. Coach Belichick aveva provato – si dice – a far partire l’era Garoppolo, è andata a finire che Jimmy è sì partito, ma dal New England, destinazione San Francisco. Il proprietario, Kraft, quello della maionese, permetterà a Brady di decidere lui quando smettere, e non è che il 12 non se lo sia meritato sul campo eh, questo privilegio. Dipenderà molto, immagino, da quanto resterà sano, per i Pats la prima priorità deve essere sempre la linea d’attacco, quella che protegge il proprio QB, ormai quasi immobile, ancora meno dinamico del solito, ed è sempre stato un “mostro” da tasca, comunque. I Pats li vedo bene se non altro per mancanza di alternative: Jacksonville ha una grande difesa, ma Bortles non è QB da Super Bowl, Pittsburgh ha la grana Bell e Big Ben mostra segni di usura, i Chargers hanno il talento, ma forse non la maturità…”.
Tra i nuovi QB (Wentz, Goff, Darnold..) ci sarà qualcuno in grado di restare al vertice per tanto tempo come Brady, Rodgers, Brees, Big Ben?
“I tre nomi che fai sono quelli più intriganti, soprattutto i primi due, Darnold ha ancora tutto da dimostrare, dipenderà anche dal cast di supporto che gli viene creato accanto, e sia Wentz che Goff hanno tanto talento vicino e ottimi staff tecnici, che fanno immaginare una carriera gratificante per entrambi, poi vanno “testati” nei playoff ma le premesse per essere il futuro, oltre al presente, ci sono. Certo il confronto con quelle leggende spaventerebbe chiunque, bisogna andarci piano….”.
Nonostante sia già un giornalista più che affermato, ha ancora un sogno nel cassetto?
“Il sogno nel cassetto era questo. Dopo aver seguito per anni Juventus e Nazionale per Gazzetta, poter seguire gli sport americani con un accesso e una continuità – soprattutto in chiave NBA/NCAA/NFL unica da sempre per il mercato italiano – è stato speciale. Sfruttando l’accesso da insider per poter raccontare in modo autentico la prospettiva statunitense, e i retroscena, come cronaca, reporting, e nel mio libro, 30su30. Un giornalista ha sempre voglia e “fame” di nuove storie da raccontare. Mi sarebbe piaciuto un giorno intervistare Federer, per dire, o coprire un’Olimpiade ma la vedo complicata. In chiave sport americani mi piacerebbe raccontare un altro spicchio d’America dopo le esperienze da residente (pago pure le tasse qui) a San Antonio, Sacramento e Minneapolis. Vedremo se sarà possibile o meno”.
Immagino sia stata complicata la strada per arrivare fino alla sua posizione di giornalista, cosa si sente di dire a chi sogna di entrare nel mondo professionistico del giornalismo sportivo?
“Che è stato un percorso estremamente gratificamente, ma altrettanto difficile. La laurea in Storia del Giornalismo a Siena, il master in giornalismo alla Luiss a Roma, gli stage gratuiti con Gazzetta, i 5 anni di precariato, poi l’approccio con il desk redazione, che fare il giornalista non è solo scrivere, le mille dinamiche interne. Ora di nuovo da free lance le incognite di un mercato italiano povero, di comunicazione a basso costo (e talvolta bassa qualità) preferita per ragioni economiche a quella che garantisce al lettore autenticità e professionalità. La sfida di abbracciare i social network senza però fare propri i loro effetti collaterali (maleducazione, superficialità, opinioni personali spacciate per fatti), quella di imparare ad usare una telecamera quando avevo un cameraman al seguito, in precedenza, ti permettono di migliorare, di crescere ancora, di lanciarti nel futuro, ma onestamente non so se a un fratello (che infatti fa tutt’altro) consiglierei la mia carriera. Anche se poi chi mi conosce sa che il mio entusiasmo e la mia passione per lo sport sono uniche, l’adrenalina che mi dà il giornalismo resta unica, e le storie di sport che scrivo credo emozionino chi legge perchè prima di tutto emozionano me….”.
Da tutta la redazione di Vita Sportiva un ringraziamento speciale a Riccardo per la sua disponibilità e professionalità, è stato un onore raccogliere il pensiero dell’unico giornalista italiano che vive quotidianamente negli USA seguendo da una posizione privilegiata gli sport americani; inoltre da parte nostra un grande in bocca al lupo per il futuro!
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